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L’anziano non merita di essere isolato o accantonato…

Non sono vecchio, solo anziano; da vecchio posso subire, ma da anziano non penso al male e al peggio, soltanto credo nel sole anche se piove e dico che per ricominciare a pensare-lavorare-agire-uscire-incontrare-amare-fare e brigare non si può aspettare il chiacchierato-amato-odiato “dpcm” del super-Giuseppe che sta a Palazzo Chigi grazie ai puntelli ora convinti ora obbligati dei suoi momentanei alleati. Semmai, è ora il tempo di fare affidamento solo sullo stimolo del cuore e della mente; anzianità e vecchiaia, che possiedo anche se insisto a tenerle per me solo, non mi aiutano a immaginare questo tempo di seconda ondata pandemica rinnovato e spogliato da tutti i mali del passato, però mi consentono di vedere speranze che rifioriscono e gente che torna in piazza – l’Agorà. il luogo della democrazia e del popolo –  per dire che il futuro incomincia da lì, da una piazza che riconosce nella solidarietà condivisa e intelligente – non è intelligente la solidarietà che concede un’elemosina senza preoccuparsi di farla diventare un bene per tanti – il modo migliore per andare oltre le paure, le sventure e i drammi quotidiani. Anche di quelle che arriveranno oggi, domani o chissà quando sotto forma di chiusure, divieti, restrizioni, limitazioni della personale libertà di muoversi e agire. Noi anziani e vecchi, non abbiamo paure delle regole, siamo pronti a osservarle, ma non può essere considerata una buona regola quella che ci obbliga a restare chiusi in casa… Per di più, è ancora l’anzianità che sollecita generosità e che si preoccupa di alleviare le pene di chi abita nello stesso cortile o sulla stessa scala, quello della porta accanto, spesso sconosciuto sebbene vivo e vicino.

Se interessa saperlo, c’è una stagione della vita che più di altre si presta a dimostrare la fondatezza e la praticabilità della solidarietà. E’ quella che i sociologi definiscono “terza” e la gente normale “anzianità”. Non è la stagione più facile, ma certo la più completa. Essa, infatti, dimenticati e subito sostituiti gli ardori e le pretese della fase intermedia con la pacatezza del giudizio e con la tenerezza dei sentimenti, consente di vedere al di là della personale sfera dei bisogni per considerare quelli dell’altro preminenti e perciò degni della massima attenzione. Se tutto questo è vero, è urgente rimettere l’anzianità al centro degli interessi e di ridare agli anziani il valore che hanno faticosamente conquistato. Non basta più dire “senza di voi ci sentiremmo orfani e poveri di saggezza” e neppure aggiungere che “voi siete sempre benvenuti e attesi”. Quel che serve, invece, è non mettere confini tra noi e loro, tra il loro e il nostro mondo, tra le pretese del nostro produrre tanto e il loro diritto a produrre il necessario o anche solo il possibile.

Qualcuno dirà che un simile modo di intendere la società equivale al tornare a un “come eravamo” non più attuale ed esigibile. E se invece fosse vero il contrario, se cioè quel che sta accadendo intorno a noi, causa coronavirus, altro non fosse che l’ammonimento a tornare alle origini o, quanto meno, a fare un passo indietro?

Allora, al mio paese capitava, e forse capita anche adesso, di tutto: si amava e si litigava, magari per futili motivi, dentro e fuori la famiglia, ma tra marito e moglie c’era sempre il modo di ricominciare dimenticando scaramucce e sgarbi veniali e tra vicini bastava ritrovarsi a spazzare davanti all’uscio di casa, dove s’incrociavano le rispettive fatiche, e ogni contrasto veniva ammorbidito con una pacca sulla spalla e, in stagione, con lo scambio di una manciata di pomodori o di una fetta di salame; d’estate si cercava il fresco sotto la grande pianta che proteggeva ogni cortile e d’inverno si lucrava il caldo alla stalla più vicina e meglio disposta a far posto agli umani della contrada; all’inizio d’autunno ci si ritrovava attorno al mucchio delle pannocchie di granoturco pronte a lasciarsi “spogliare del manto” (in italiano corretto si dice “liberare dalle brattee”) che le ricopriva e così aprire le porte ai corteggiamenti delle fanciulle presenti che poi, nelle lunghe sere passate in stalla, trovavano conferme o smentite; a cavallo del san Martino, quando scadevano contratti e cambiali agrarie, si univano le forze affinché nessun impegno restasse disonorato; nei mesi di nebbia, calabrosa e neve, in un giorno atteso e stabilito, s’ammazzava il maiale. Ed era festa per tanti, addirittura per tutto il vicinato se l’annata era stata almeno soddisfacente. Allora eravamo capaci di condividere il poco e il tanto posseduto; eravamo paesani felici, corti di parole ma larghi di ospitalità e di generosità, ma proprio per quell’indole pacifica, possibilista, mite e disposta ad accogliere piuttosto che a respingere, eravamo anche unici e, forse, irripetibili. E quelle vissute erano domeniche speciali alle quali facevano seguito giorni di ristrettezze, perché quelli erano tempi duri per tutti. Eppure, quella ruralità aveva connotati inconfondibili: paesaggio sul quale emergevano imponenti i campanili delle parrocchie, terra da rendere fertile ed amica, gente fiera del lavoro e dei calli maturati manovrando badili, forche e zappe, fedeltà alle tradizioni e forte attaccamento alla chiesa dentro la quale ci pareva d’essere tutti finalmente uguali. Anche i problemi erano sempre gli stessi: affitti, “sanmartini” che scandivano, senza alcuna compassione, i tempi per restare e quelli per abbandonare tutto quello per cui si era faticato, mezzadria, la “cambiale agricola” da onorare e nidiate di figli da allevare e, se possibile, da mandare a scuola.

Eppure, si viveva meglio. Ci si accettava per quello che si era. Solo raramente – e con l’unico scopo di impedire alle bestie di usurpare lo spazio riservato alle persone – si sprangavano le porte. C’era sempre una scodella di minestra calda per il mendicante e una paletta di farina per il povero. Si esercitava il “mutuo soccorso” e al tepore della stalla, uguale per tutti, prendevano forma i progetti e si consolidavano le speranze. E sempre, nella canonica del vecchio parroco si componevano le liti e sul campetto dell’oratorio si esaltava la pacifica convivenza.

Tempi andati. E oggi? Ognuno risponda per quel che gli compete, magari preoccupandosi di rimettere al centro la persona, in modo da restituire a questa società tutto il valore di quei “valori” – onestà, solidarietà, salute, rispetto, onore, patria, verità, libertà, accoglienza, giustizia, pace – che hanno fatto grande la nostra provincia, che è e resta un universo in cui si mischiano senza perdere i rispettivi connotati, ruralità e industria, modernità e tradizione, vecchiaia e gioventù, fiducia e speranza. Don Primo Mazzolari, un figlio prediletto di questa terra, diceva che “dietro lo sconforto di chi lancia pietre contro la finestra della chiesa, c’è un’anima che aspetta da noi, noi riuniti in chiesa per pregare e per lodare il Dio della Giustizia e della Carità, un segno che lo aiuti a ritrovare la luce”. La stessa che adesso cerchiamo per uscire dalla crisi, per lasciarci alle spalle le paure e i lutti provocati dal virus, per dare un senso all’esistenza e restituire agli anziani oggi ridotti quasi a un cumolo di macerie, voce, dignità, rispetto e, soprattutto, un posto in cui stare senza temere contagio o reclusione. Per farlo è però necessario ragionare, senza paura, sulla realtà degli anziani e, soprattutto, delle Case di Riposo che li accolgono, su ciò che sono state, che sono e che sono chiamate a diventare.

LUCIANO COSTA

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