Dice la cronaca che ieri in oltre 40 città si sono svolti cortei e sono stati attuati presidi; che a Torino sono state occupate numerose scuole; che alcune organizzazioni studentesche hanno chiesto le dimissioni del Ministro dell’Istruzione Bianchi e del Ministro dell’Interno Lamorgese; che lunedì prossimo gli studenti saranno ascoltati, nel corso di un’apposita audizione, dalla Commissione Cultura alla Camera. Le cronache non dicono che cosa hanno detto gli studenti affacciandosi sulle piazze e mettendosi ai microfoni per scandire slogan e mandare messaggi. Neppure informano come gli studenti riescano a organizzarsi e a dotarsi di ciò che da sempre rappresenta il corredo del dimostrante incazzato, vale a dire: striscioni pensati e decorati con slogan anche loro pensati per essere immediata trasmissione di pensieri arrabbiati e di richieste magari comprensibili ma anche discutibili; mascherine, maschere e foulard già fatti a triangolo per essere bavaglio; bastoni e bastoncini, innocenti fino a prova contraria o come possono essere innocenti certi oggetti usati per mettere soggezione a qualche malintenzionato di passaggio; zaini gonfi (di che cosa lo sanno i loro portatori) come fossero salvagenti; megafoni accesi e fischietti sempre a portata di bocca; fumogeni pronti a scatenarsi; bandiere (in prevalenza rosse, che il rosso è segno della rivoluzione proletaria) innalzate come emblema di qualcosa che però, almeno per adesso, sfugge alla comprensione…
Gli studenti in piazza per dire pacificamente che vogliono una scuola che li faccia diventare protagonisti del loro futuro, che chiedono una scuola in cui il sapere sia pane quotidiano di tutti e per tutti, che rivendicano spazi di libertà e di autonomia, che chiedono di uscire dall’isolamento in cui la pandemia li ha costretti e che portano ragioni convincenti all’idea che due prove scritte all’esame di maturità, viste le condizioni con cui arriva alla meta, sono un peso e non una risorsa, li capisco e li apprezzo.
Invece, non li capisco e neppure li apprezzo quando sin travestono da giudici e chiedono le dimissioni di questo o quel ministro, quando diventano strumenti di occhiuta politica, quando sposano tesi ideologiche utili a raccogliere un pugno di consensi ma certo non a dare senso e prospettiva al confronto, quando dimenticano la natura pacifica, che di sicuro li anima, e vanno all’assalto di chiunque si frapponga alla loro audacia, quando vestono la divisa del giustiziere e si accaniscono contro le forze di polizia incaricate di assicurare la loro libertà di protestare ma anche la libertà di chi si trova sulla stessa piazza, quando menano fendenti (la televisione in questi frangenti diventa una macchina accusatrice che non ammette giustificazioni) cercando di creare varchi attraverso i quali accedere ai palazzi che loro ritengono ostili. Di questo modo di manifestare usando violenza piuttosto che ragioni vi è traccia evidente e amarissima nelle immagini mandate in onda d più di televisione: mostrano di spalle gli studenti che usando bastoni si accaniscono contro i carabinieri incaricati di presidiare a Torino la sede della Confindustria, li si vede menare fendenti e ripetere una-cinque-dieci volte e più l’operazione, li si nota argomentare tra loro e poi avvicendarsi e poi riprovare a vincere, ogni volta aggiustandosi la mascherina con cui celano le loro sembianze. Davvero un brutto spettacolo, che disonora gli artefici di così ingiustificata violenza e mortifica la massa degli studenti che la loro protesta l’avevano sognata e attuata pacifica e costruttiva.
Ho letto che “attenzione e dialogo” sono le due parole chiave che vengono ripetute come un mantra a tutte le prefetture in vista dei cortei studenteschi. C’è infatti nell’aria il timore che la protesta, magari fomentata da chi con gli studenti non ha nulla da spartire ma che gli studenti li usa per fini politici, degeneri fino a diventare incontrollabile. Quindi, ecco il ricorso a misure che intensificano “«i servizi di prevenzione a carattere generale e di controllo del territorio, allo scopo – detto in forma burocratica – di garantire il regolare svolgimento delle manifestazioni”. Sono sempre convinto che una manifestazione pacifica, soprattutto se i suoi protagonisti sono studenti (giovani intelligenti, quindi artefici del loro presente), non ha bisogno di misure pensate per garantire sicurezza (la pace, infatti, è da sola già garanzia di sicurezza). La realtà, purtroppo, offre assai spesso l’opposto. Però, a sentire i capi, che davanti alle telecamere fanno sfoggio di sapere e linguaggio appropriati e ben irrorati da quella sottile ideologia rivoluzionaria che li rende credibili oltre che simpatici, resto dell’avviso che, tutt’al più, costoro rappresentano le frange e non la massa degli studenti. C’è chi grida “non cui ascoltano”, chi sottolinea come “nonostante dall’inizio dell’anno migliaia di studenti siano scesi in piazza in tutta Italia contro l’attuale modello di scuola il ministro continua a non ascoltarci…”, chi chiede semplicemente “confronto e dialogo sulle cose possibili da fare e sulle norme attuabili” e chi, come quel che resta dei comunisti in rivoluzione permanente continua, grida che “dividere gli studenti in ‘buoni’ e ‘cattivi’, con la storia di ‘infiltrati’ che non esistono, significa mettere in discussione la nostra legittimità…”.
Non ho voglia di tuffarmi in polemiche ulteriori. Però, vorrei suggerire agli studenti, che continuo ad apprezzare, di pretendere che le loro manifestazioni pacifiche restino pacifiche anche quando qualcuno, che pacifico non è, pretende di appropriarsi del pallino dell’organizzazione. Lo riconosco, è ragionamento che sta bene ai vecchi cronisti e che non piace ai nuovi, per i quali la notizia sta nel rumore provocato e non nelle ragioni sostenute. “Tutto questo “perché il pensiero del presente – ha scritto Natalia Aspesi – ha sempre ragione anche quando è sbagliato e quello del passato ha sempre torto anche quando è giusto”.
LUCIANO COSTA