Il Sudan, stato africano dove la povertà è evidente, vivere è difficile e dove il rumore delle armi è assordante, non è certo una meta turistica. Quindi, conoscerlo e rendersi conto di ciò che accade non è facile. Si sa, e se ne parla diffusamente da dieci giorni, che è in corso un’altra orribile guerra tra gruppi che mirano alla conquista del potere assoluto, che i morti sono più di seicento, che i feriti sono almeno duemila, che nessuna tregua regge, chenessun discorso di pace trova orecchie disposte ad ascoltare. “Il Sudan muore – ha scritto ieri un missionario cattolico – e il mondo resta soltanto a guardare. La logica della guerra, qui e altrove, in Ucraina per esempio, domina e annichilisce – aggiunge il missionario -, schiaccia ogni ipotesi di futuro e uccide sogni e speranze”. In Sudan, scrive Giulio Albanese “è battaglia per il controllo del potere all’interno di una giunta militare che si è data un nome altisonante: Consiglio supremo di transizione (Tsc). Del resto, già da tempo l’organizzazione Sudan Policy and Transparency Tracker, che si occupa di monitorare con grande scrupolo le istituzioni e le politiche sudanesi, esprimeva preoccupazione per i nodi ancora aggrovigliati nei negoziati sull’accordo politico per la formazione di un governo a guida civile, che avrebbe dovuto essere firmato all’inizio di questo aprile 2023”. Ciò che sta accadendo in questo pezzo d’Africa, nuda e pura cronaca, è raccontato da Albanese, giornalista esperto di questioni africane, con estrema chiarezza unita a rigore storico inoppugnabile.
“Il 5 dicembre scorso il Tsc e una cinquantina di leader appartenenti a partiti politici, associazioni e organizzazioni della società civile – molti riuniti nel cartello delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) – hanno firmato un accordo politico preliminare che avrebbe dovuto costituire il primo passo verso l’uscita dalla crisi seguita al colpo di stato del 25 ottobre 2021. L’obiettivo, almeno dal punto di vista formale, era quello di portare in porto la faticosa transizione democratica, iniziata nell’aprile 2019, quando la mobilitazione popolare defenestrò l’allora presidente-padrone Omar Hassan el-Bashir, causando l’implosione del regime islamista del Partito del congresso nazionale (Ncp). Sebbene l’obiettivo fosse nobile, l’euforia per questa iniziativa non era condivisa da tutti. Infatti vasti settori della dissidenza civile sudanese, riunitisi in comitati di resistenza, si dissero da subito contrari a qualsiasi intesa con il Tsc presieduto dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan. A loro parere, infatti, questa iniziativa avrebbe finito per sostanzialmente legittimare il colpo di stato del 2021 che aveva bloccato il processo di transizione verso la democrazia. Un indirizzo condiviso anche da alcune formazioni politiche sudanesi e da diversi movimenti popolari, parecchi usciti dalle Ffc per poi formare un nuovo raggruppamento, le Forze per la libertà e il cambiamento- Blocco Democratico (Ffc-Db).
“Sta di fatto che da allora si è rimessa in moto una macchina negoziale con l’obiettivo di raggiungere l’intesa necessaria a dar vita a un governo a guida civile, che avrebbe dovuto essere firmato, in due fasi: il 3 e l’11 aprile. Purtroppo, nel frattempo, il braccio di ferro tra il generale al-Burhan e il suo vice, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf), è sfociato in un vero e proprio scontro. Oggetto del contenzioso la possibile unificazione tra esercito regolare e Rsf. Un’operazione osteggiata da Hemetti. Con queste premesse, è davvero difficile ipotizzare per il prossimo futuro un governo a guida civile, capace di contenere lo strapotere dei militari (poco importa se regolari o delle Rsf ), anche perché sono molti gli interessi in gioco di ambedue le parti, legati al business minerario. Nel frattempo, si registrano infiltrazioni di miliziani Janjaweed, legati a Hemetti, gli stessi che in questi anni hanno compiuto stragi nel Darfur. Si tratta di predoni appartenenti alla famiglia estesa dei Baggara, insediata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale. Questi gruppi armati sarebbero foraggiati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Come se non bastasse, in Sudan si è consolidata la presenza dei contractor della compagnia russa Wagner i quali operano in diversi settori del Paese, dal nord-est dove vi sono alcune miniere d’oro alla regione occidentale del Darfur. Sul fatto che Hemetti possa contare sull’aiuto dei mercenari russi, a Khartoum, circolano le voci più disparate.
“È certo, comunque – conclude il giornalista –, che egli intrattiene proficui rapporti con Mosca e che vi è una stretta collaborazione tra Wagner e Rsf nelle zone minerarie aurifere. E vale la pena di ricordare che la Meroe Gold, società sussidiaria nel settore estrattivo della Wagner, presente in Sudan, è stata sanzionata recentemente dal Consiglio dell’Unione Europea in quanto le sue attività mettono in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Di fronte a questo scenario è difficile fare previsioni positive sull’evoluzione della crisi. Ancora una volta, in Sudan il desiderio di democrazia e partecipazione della gente viene soffocato con la forza delle armi. E’ un altro pezzo della grande guerra che continua a insanguinare il mondo”.
Però, nonostante i venti di guerra soffino impetuosi, c’è chi non si rassegna. A quattordici mesi dal conflitto scatenato dalla Russia contro l’Ucraina e mentre nel mondo sono in corso guerre dichiarate e non dichiarate (come quella in Sudan, di cui Giulio Albanese ha spiegato l’orrore nella nota pubblicata), tanti tantissimi sconosciuti che non credono all’ineluttabilità della guerra continuano a tessere ostinatamente il filo della pace. A Firenze, per esempio, è stata appena lanciata un’iniziativa che richiama alla memoria ancora una volta l’impegno di Giorgio La Pira, di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani ai tempi della Guerra fredda. L’obiettivo è quello di ridare alla città un ruolo di “capitale della pace e del dialogo”, dotandola di strumenti concreti per intraprendere iniziative di carattere straordinario, d’intesa con le organizzazioni già impegnate sul tema. Da Firenze è partito un appello per organizzare entro l’estate un incontro internazionale che riproponga il tema del cessate il fuoco (in Ucraina e dove infuriano le guerre) capace di avviare negoziati di pace fra tutti i soggetti coinvolti nel conflitto.
Nello spirito di Giorgio La Pira e di chi con lui fece di Firenze un centro di affermazione e promozione della pace, si tratterebbe di istituire un forum permanente per la pace cui possano partecipare associazioni, movimenti, realtà impegnate nel campo del pacifismo ma anche università, enti scientifici e autonomie locali. “Tale forum – si legge nell’appello – potrebbe agire in stretto rapporto con le organizzazioni impegnate su questo terreno, come la Comunità di Sant’Egidio, gli Ambasciatori di pace presso l’Unione Europea e l’Onu, nei diversi consessi internazionali in cui si incontrano i rappresentanti degli Stati”.
(A cura di LUCIANO COSTA)