Il Libano, terra dei cedri, terra benedetta e rigogliosa non c’è più. Al suo posto ci sono ammassi di miseria e cumuli di macerie che aspettano ancora di essere rimossi. Quasi cinquant’anni fa, quando da questa parte del Mare Nostrum era di moda parlare del Libano come di una Svizzera in Medio Oriente, turista per caso in quella nazione che sembrava per davvero l’Eden a lungo cercato, mi convinsi che sarebbe stato bello abitare lì piuttosto che altrove. Quello che vedevo, infatti, era un paese moderno, ordinato, civile, abitato da gente aperta e pronta al dialogo. Però, non durò a lungo quell’illusione. Seguirono rivolte interne, lotte di potere, guerre dichiarate e non dichiarate, contese col vicino Israele, dubbie alleanze. Poi, dopo sofferti patti di pace, incominciò la ricostruzione. E il Libano tornò a essere meta ambita di viaggi e turismo… Ma ancora una volta, l’illusione di ricominciare offrendo possibilità di sviluppo a tanti durò poco. Però, quella terra benedetta, pur tra contraddizioni, diversificazioni marcate e alleanze mai ben definite offriva spazi di abitabilità e di progresso interessanti. Poi, un anno fa … “una scintilla innescò il nitrato d’ammonio stipato nel grande porto della capitale e l’esplosione devastò la città provocando 207 morti e nuova miseria.
“Qui – ha raccontato l’avvocato che si sta battendo, per ora senza alcun utile risultato, per garantire giustizia ai morti e ai sopravvissuti – un anno fa una scintilla ha innescato il nitrato d’ammonio, gonfiato la poderosa onda d’urto che ha invaso le strade e risalito la città come un soffio d’apocalisse, devastando, mutilando, uccidendo: duecentosette i morti, settemila i feriti. Non è dato sapere chi abbia prezzolato gli operai mandati a seminare morte e distruzione: qui, infatti, l’oblio di Stato è pratica comune”.
Nelle cronache da Beirut un anno dopo “trauma è la parola più ricorrente: dice l’orrore sedimentato dell’esplosione, racconta il panico, l’ansia, l’insonnia dei bambini, il loro precoce incontro con la presenza della morte. Ed è un trauma che ha un luogo, una forma, che s’invelenisce al pensiero dei responsabili. Ma ciò che si avvinghia all’incredulità della psiche e rende abissale lo sconforto – scrive il cronista – è il vigile spettro della storia, il destino sanguinoso del Libano aggregato dall’inganno coloniale di britannici e francesi, strutturato sull’oligarchia e il confessionalismo, esploso con l’interminabile guerra civile, curato con l’unguento del neoliberismo spietato dagli stessi satrapi che lo avevano diviso, o dai loro eredi”.
Il Libano, terra dei cedri e luogo benedetto, come “trincea e teatro di tragedia classica per i blocchi geopolitici che si contendono il Medio Oriente”. Si dice e lo dicono in tanti: “Il Libano è di tutti”. Ma oggi il Libano fatto di gente e di popoli che vivono e sperano giorni migliori non esiste. Sopravvive puntellato dalle generosità raccolte e mandate da operose organizzazioni non governative e da ciò che ancora arriuva dall’estero, soprattutto dai luoghi in cui tanti libanesi hanno trovato ospitalità e fortuna. “La storia ha eroso il luogo di convergenza collettiva dello Stato – ha scritto un inviato speciale -, lo ha reso un simulacro ostentato dalle bande dei partiti”.
Quello che appare evidente è la risposta della classe dirigente. Una risposta impregnata dalla crisi economica che oggi consuma il Paese. Infatti, qui il potere d’acquisto è stato annichilito dalle disinvolte operazioni della banca centrale e dall’inflazione; metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con energia elettrica intermittente, con acqua infettata, dentro una precarietà sanitaria che ogni giorno dimostra la sua impotenza.
In questo modo l’esplosione del 4 agosto 2020 ha rispolverata e resa attuale l’antica rabbia, assopita e mai dimenticata.
Nel giorno dell’anniversario, Beirut trascina sul baratro le sue antiche contraddizioni. Leggo e riferisco quel che il cronista ha annotato: “All’inizio di Mar Mikhael, il mercatino “dell’emancipazione dignitosa e sostenibile” raccoglie i venditori dell’usato, giovani e anziani della classe media immiserita. Poco più in là, la strada delle baldorie notturne rimbomba d’ebrezza, irride la pandemia e i senzatetto che sonnambuli cercano di vendere gomme americane. Nel quartiere che non dormiva mai, Hamra, Ahmad lascia incustodito uno dei suoi tre negozi di profumi per agganciare gli acquirenti sul marciapiede. Svende tutto prima di chiudere. Chiede una sigaretta. Nel buio proliferano i furti, le violenze, i suicidi. In tutto il Paese le scuole chiudono e i bambini muoiono di febbre o per la puntura d’uno scorpione. Le medicine latitano, ma altri fanciulli nuotano nelle piscine dei club sulla Corniche. Un gruppo di coetanei siriani li osserva dalla bocca vuota di un palazzo in costruzione. Sono il popolo dei cassoni strabordanti di rifiuti”.
Oggi il mondo ricorda, i libanesi piangono e invocano aiuti. “Wassim – spiega il giornalista inviato per raccontare il dramma -, seduto nella piccola caffetteria adiacente alla sede del partito Amal, nel quartiere sciita di Dahieh, spera. E invocando la rinascita del suo Paese asciuga l’ennesima lacrima. Però ha anche il tempo per dire che “la gente di Hezbollah non ha problemi, riceve anche 800 dollari al mese… Tutti gli altri, chi non la pensa come loro, non ha nulla, non avrà nulla, non spererà nulla…”.
LUCIANO COSTA