È UNA FOTOGRAFIA PREOCCUPANTE quella che emerge dal rapporto “World Press Freedom” pubblicato ieri, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa. Le pagine del report dicono che il giornalismo è mal visto, addirittura ritenuto “cattivo”, in sette paesi su dieci e soltanto “soddisfacente” in tre su dieci. Però, si dice generalmente in giro, l’attività giornalistica rappresenta il benessere della collettività e la libertà di stampa “è un indice importante dello stato di salute di un Paese”. Infatti, le dittature si affrettano a restringerla o sopprimerla. Quindi, ha scritto ieri papa Francesco, ecco il bisogno di “giornalisti liberi, che aiutino a non dimenticare tante situazioni di sofferenza”. Quanto ai dati che caratterizzano il rapporto 2023, basta poco per definirli “preoccupanti”. Dicono infatti che nel mondo cresce il numero dei giornalisti uccisi (1.582 dal 1993), arrestati o obbligati al silenzio.
Dal rapporto pubblicato da “Reporters Sans Frontières”, basato su cinque indicatori che corrispondono al contesto politico, il quadro normativo, il contesto economico, quello socioculturale e la sicurezza, emerge il diffuso sistema di negazione del diritto d’informazione libera. Da qui la fotografia di un sistema che rimanda a una situazione “molto grave” in 31 Paesi rispetto ai 21 di appena due anni fa, “difficile” in 42, “problematica” in 55 e “buona o soddisfacente” nei restanti 52. Sul podio dei paesi più virtuosi la Norvegia, seguita dall’Irlanda e dalla Danimarca. Gli ultimi tre posti sono invece occupati da paesi asiatici: il Vietnam al 178esimo posto, la Cina al 179esimo (Reporters Sans Frontières definisce la Cina “il più grande carceriere di giornalisti al mondo”) e Corea del Nord all’ultimo posto. A preoccupare è però il record negativo della Tunisia, che in un anno ha perso 27 posizioni passando dal 94° al 121°. La causa sarebbe legata al crescente autoritarismo del presidente, contrario alle critiche della stampa. Il report mostra inoltre come progressi tecnologici stiano consentendo ai governi e agli attori politici di distorcere la realtà, mettendo a repentaglio il diritto all’informazione. Secondo RSF l’intelligenza artificiale aiuterebbe l’industria della disinformazione, diffonde contenuti manipolativi su vasta scala, violando i principi di rigore e affidabilità. Aiutando in questo modo i governi a combattere una vera e propria guerra di propaganda basata sulla manipolazione di contenuti.
Però ieri, al centro dell’attenzione, non c’era solo la libertà di stampa offesa e negata. Su tutto, infatti, emergeva l’ombra dei droni che volavano sulla cupola del Cremlino, forse a caccia di Putin, forse messi in circolo per provocare e accusare di invasione l’Ucraina o forse lanciati e guidati come monito e avviso di pericolo. Nessuno spiegherà cosa siano realmente quei droni, ma resta evidente che qualcosa scricchiola dalle parti di Mosca. Quei droni, infatti, mentre la guerra in Ucraina segna il suo 435, rappresentano una sorpresa militare che spariglia anche il quadro diplomatico, ben superiore alla reale portata “terroristica” dell’evento. La Russia ha dichiarato che i due droni che avrebbero preso di mira il Cremlino sono stati disattivati utilizzando radar elettronici. Sui social media sono apparsi filmati non verificati che mostrano un oggetto sorvolare il Palazzo prima di una piccola esplosione seguita da fiamme. In un video diffuso sui social media, il fumo si alza sopra il complesso fortificato, in un altro è visibile una deflagrazione sopra l’edificio del Senato, mentre due uomini sembrano arrampicarsi sulla cupola. Il presidente ucraino ha affermato che il suo Paese è estraneo e non vuole colpire Putin. Secondo i vertici ucraini l’azione potrebbe essere ricondotta alla resistenza interna russa, che avrebbe così dato una prova di forza alla vigilia delle manifestazioni previste per l’anniversario della Vittoria (9 maggio). Emerge anche l’ipotesi che quella dei droni sia stata un’operazione in stile “strategia della tensione” organizzata dagli stessi apparati di sicurezza di Mosca per fare ricadere la colpa sulle forze armate ucraine e alzare il tiro sui vertici del Paese invaso alla vigilia della temuta controffensiva (oppure sull’opposizione interna per schiacciarla ulteriormente).
Domani, 5 maggio, va in scena in Europa “Streets for kids”, occasione che vedrà migliaia di bambini e bambine scendere in strada con girotondi, biciclettate e giochi in strada per chiedere più strade scolastiche e tante occasioni per viaggiare da casa a scuola in completa sicurezza. In contemporanea con la giornata l’associazione “Clean Cities Campaign” presenterà i risultati del sondaggio “Strade scolastiche: cosa pensano i bambini in Italia” (commissionata su un campione composto da 1017 bambini di età compresa tra i 6 e i 17 anni) per indagare come si muovono, come lo vorrebbero fare e la percezione che hanno dello spazio di fronte alle proprie scuole.
Secondo i risultati, l’88% dei bambini intervistati vorrebbe una strada scolastica, ma solo il 7% di loro ad oggi ne ha una. Il sondaggio ha rilevato che il 47% dei bambini intervistati viene attualmente accompagnato a scuola in auto o in moto, percentuale che sale fino al 66% per i bambini delle elementari. Il 50% degli intervistati afferma che vorrebbe camminare, andare in bicicletta o usare un monopattino per andare a scuola. Il 28% dei bambini dichiara di volersi recare a scuola in bicicletta o in monopattino, ma attualmente solo il 3% lo fa. Quando abbiamo chiesto perché i bambini in Italia non camminano o vanno in bicicletta di più, il 48% dei bambini ha risposto che è troppo pericoloso. In questo senso, è da rilevare inoltre che circa la metà dei bambini e dei ragazzi intervistati vorrebbe meno auto attorno alle proprie scuole, a prescindere dall’età e dalla regione di residenza. La metà dei bambini e dei ragazzi intervistati vorrebbe più alberi e spazi verdi attorno alle proprie scuole. Circa un terzo dei bambini e dei ragazzi vorrebbe più corsie e piste ciclabili per raggiungere la scuola, con punte vicine al 50% per chi frequenta le scuole medie e le superiori.
Ad andare a scuola a piedi o in bici sono soprattutto i bambini e le bambine delle elementari e medie (tra un quarto e la metà degli spostamenti). Il sondaggio ci conferma che le bambine e i bambini in Italia reclamano il bisogno di spazi in sicurezza dove giocare, di aria pulita e di percorsi casa-scuola protetti dove potersi muovere a piedi e in bici. È quindi ora che le amministrazioni si prendano la responsabilità e realizzino strade scolastiche da subito davanti a tutte le scuole. È una urgenza che esprimono i bambini, i diretti interessati al loro futuro, ma lo dicono anche i dati, le esperienze e le tendenze in Europa verso città con meno auto e più mobilità sostenibile.
Ma perché servono strade scolastiche? Secondo gli esperti le strade scolastiche, ossia le strade su cui si affacciano le scuole chiuse al traffico, sono un tassello essenziale di una mobilità sostenibile e a zero emissioni, che metta al centro lo spazio per le persone e riduca la centralità dell’auto nelle nostre città. Oltre a ridurre l’inquinamento e a garantire la salute e la sicurezza stradale favoriscono il gioco libero, lo sport e contribuiscono ad incentivare l’autonomia e lo sviluppo di comunità educanti intorno ai nostri bambini. Le strade scolastiche contribuiscono al processo di realizzazione delle “Città 30”, progetto su cui finalmente anche in Italia si è aperto il dibattito. Le strade scolastiche sono uno strumento utile a ridurre l’inquinamento dell’aria nelle immediate vicinanze delle scuole. A Londra, ad esempio, è stato dimostrato che le strade scolastiche hanno ridotto i livelli di biossido di azoto fino al 23% e diminuito sensibilmente il traffico veicolare lungo tutto l’arco della giornata.
(A cura di LUCIANO COSTA)