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L’impensabile è accaduto e accade ancora…

Nel giorno anniversario dell’inizio della guerra scatenata dalla “grande” Russia contro la “piccola” Ucraina, ho visto scorrere pagine per dire no alla guerra, ma anche righe per dire che la risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che stabilisce l’immediato ritiro della Russia da territori occupati in Ucraina (141 su 193 i favorevoli, sette i contrari, trentadue i contrari), senza una precisa assunzione di responsabilità, rischia di fare bella mostra senza minimamente incidere sulle azioni in corso. Certo, è trascorso un anno, ma il cielo sopra l’Ucraina è ancora solcato dai missili russi, l’orizzonte è ancora oscurato dal fumo nero di migliaia di esplosioni che radono al suolo interi paesi, polverizzano edifici, uccidono senza distinzioni soldati e civili. Dal primo giorno gli ucraini si stanno opponendo coraggiosamente all’invasione, forti anche del solidale sostegno pressoché compatto dell’Occidente nella legittima difesa della libertà e indipendenza di una nazione sovrana dall’ingiustificabile e assurdo attacco da parte di un Paese straniero. Epassato un annoOra però quello stesso Occidente dovrebbe assumere con forza una iniziativa diplomatica per giungere finalmente a un cessate il fuoco e avviare un serio negoziato di pace. Infatti, affermare di stare accanto a Kyiv per tutto il tempo necessario, come sostengono i leader occidentali, non può più bastare. Il “tempo necessario” non può essere infinito. Per quanto ancora l’orizzonte nei cieli ucraini dovrà restare oscurato dal fumo nero delle esplosioni prima che si dica basta?

In attea di una risposta coraggiosa e definitiva, la geografia del voto espresso all’Assemblea Generale dell’ONU innesca preoccupazioni e suscita dolore: sono Russia, Bielorussia, Siria, Nord Corea, Eritrea, Mali e Nicaragua i Paesi contrari alla risoluzione che chiede pace e che ribadisce “l’impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’unità e integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti”; sono Cuba, Pakistan, Angola, Etiopia, Algeria, Sudafrica, Zimbabwe, Iran, Armenia, Kazakistan e Uzbekistan e molti Paesi del Sud del mondo, che astenendosi sottolineano la loro distanza da quella che considerano una guerra dell’Occidente.

Come ha scvriutto ieri un autorevole commentatore “questo è ciò che succede quando la politica si suicida e cede il passo alla guerra, che della politica – checché ne dica qualche gran generale del passato e più di un Solone del nostro presente – non è la continuazione, ma l’abdicazione. Unfatti, aggiunge iol notista vaticano, “la guerra è radicale e assassina rinuncia alla politica. E, sì, della politica è il suicidio. Soprattutto oggi, soprattutto nel nostro complicato eppure ancora benedetto pezzo di mondo – temperato, bianco, nordico, istruito, supertecnologico, ma con sempre meno croci e meno lumi. Sì, la guerra è suicidio della politica soprattutto qui, in questo vecchio continente che amiamo e chiamiamo Europa, dove per decenni abbiamo tenuto in piedi e alimentato il più grande e pacifico laboratorio di integrazione delle differenze (e delle storiche inimicizie) e ci siamo illusi, e detti, e ripetuti di aver tutto capito e tutto sistemato, sposando il mercato e lo stato sociale, restando separati ma facendo crescere la sensazione (e la pratica) dell’assenza tra noi (solo tra noi, e tra noi e altri “ricchi”) di confini. E invece eccoci a ballare come mai prima sull’orlo dell’abisso della guerra totale, per una storia di confini armati, etnico-identitari ed esclusivi, tra crudeltà primonovecentesche, incubi digitali e atroci spettri nucleari. E rieccoci, volenti o nolenti, noi europei, tutti iscritti al club degli omicidi-suicidi bellici. Senza scuse, perché non possiamo fingere di non sapere che siamo nell’era in cui le guerre le vincono – almeno per un po’, e col rischio non solo teorico di finire in massa nell’inferno atomico – solo quelli che le tengono ben lontane da casa, le armano guadagnandoci in soldi e dominio e, soprattutto, le fanno con i petti degli altri.

Tutto questo vale per la guerra combattuta ma anche per quell’altra, non combattuta ma in atto, contro invasori mendicanti e disperati provenienti dalla fetta di mondo in cui regnano fame, sete, povertà, violenza e negazione delle libertà. Alimenta adesso questa guerra contro mille o centomila o due o dieci milioni di disperati in cerca di un pezzo di terra su cui piantare la loro speranza di vivere almeno un altro giorno, il decreto reso legge da una maggioranza di Governo che si sta dimostrando cieca e sorda ai valori di accoglienza e umanità che dovrebbero essere di chiunque voglia sentirsi nazione civile. Il governo si fa forte di un provvedimento controverso (su cui si addensano i dubbi e le perplessità di giuristi, organizzazioni umanitarie, ma anche dell’Onu) fortemente voluto dalla Lega, che introduce una stretta assurda e certo assai poco rispettosa del diretto internazionale, all’attività di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo portata avanti da diverse organizzazioni non governative.

Le cronache parlamentari hanno raccontato tempi e modi della votazione del provvedimento, ora facendo riferimento ai tanti dissensi, ora sventagliando il diritto della maggioranza di procedere oltre ogni possibile sbarramento, compreso quello della definizione del numero legale, necessario per procedere alla votazione. Per esempio, è accaduto che in risposta al tentativo delle opposizioni di far mancare il numero legale (sono uscite dall’aula, lasciando gli scranni alla sola maggioranza), i promotori del provvedimento abbiano usato il regolamento laddove prevede che “nel calcolo dei presenti vengono conteggiati anche gli assenti in congedo o missione. Per Gasparri, il vicepresidente del Senato che in quel momento presiedeva la seduta “il numero legale” c’era. Così, sulla base di quella interpretazione, che agli assenti assegna lo stesso valore dei presenti, l’assemblea ha votatobocciando prima tutti gli emendamenti predentati dalle opposizioni, poi dando il via libera al testo, che per la maggioranza “non criminalizza nessuno e pone regole di condotta in conformità alle regole del diritto del mare.

Diverso il parere delle minoranze, per le quali il provvedimento èsolo una “pagina nera e assurda” dell’attuale politica governativa, qualcosa che “trasuda populismo e non affronta i veri punti della crisi migratoria e del declino demografico”, un’offesa al diritto, un “vergognoso” modo di intendere il problema immigrati, un provvedimento “incapace di affrontare la questione dei flussi migratori, solo “una norma bandiera, ideologica e cinica, che ha un unico obiettivo chiaro, anche se non dichiarato: rendere impossibili i salvataggi in mare”. Secondo le Organizzazioni non governative, vittime principali del provvedimento, si tratta di “barbarie di Stato”. Per Emergency, ad esempio, è un provvedimento “inaccettabile” il cui prezzo sarà amaramente pagato dai naufraghi, lasciati al loro destino…” o in balia della guardia costiera libica a ragione ritenuta “incapace di operare nel rispetto dei diritti delle persone.

Quel che chiaramente emerge dal provvedimento è la serie di cavilli burocratici e spesso vessatori che di fatto vanno contro chi salva vite umane. Infatti, la legge vincola le navi delle Ong a rispettare una lunga serie di requisiti, compreso il possesso di certificazioni e documenti rilasciati dallo Stato di bandiera. Secondo la nuova legge, le organizzazioni di soccorso debbono informare i migranti salvati sulla possibilità di richiedere la protezione internazionale, raccoglierne le generalità e fornirle alle autorità dopo lo sbarco. Inoltre, non appena effettuato un salvataggio, le navi devono comunicare cosa è avvenuto e chiedere l’assegnazione di un porto di sbarco, magari da raggiungere quanto prima, senza fermate intermedie e, soprattutto, senza ulteriori salvataggi, Così, alle navi a cui va il merito di aver salvato vite umane vengono assegnati porti lontani dalla zona di salvataggio, rendendo più lunghi e faticosi il viaggio di approdo e il rientro nell’area di soccorso. Comandanti, gestori e proprietari delle navi che violano le norme rischiano multe da 10mila a 50mila euro, oltre al fermo amministrativo dello scafo per due mesi (a spese dell’armatore). In caso di reiterazione della violazione, scatterà la confisca. Anche se non si forniscono le informazioni richieste dalle autorità, sono previste sanzioni da 2mila a 10mila euro e il fermo amministrativo della nave per 20 giorni, prorogabile fino a due mesi.

Ed è scattato nei confronti della nave di Medici Senza Frontiere il primo provvedimento emesso dopo l’introduzione del decretoappena diventato legge. “Le autorità italiane dicono i responsabili dell’organizzazione umanitariahanno comunicato che la Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere, è stata raggiunta da un fermo amministrativo di 20 giorni e una multa da 10mila euro. La Capitaneria di Porto di Ancona ci contesta, alla luce del nuovo decreto, di non aver fornito tutte le informazioni richieste durante l’ultima rotazione che si è conclusa con lo sbarco ad Ancona”.

Quel che emerge è che se qualcuno salva la vita di naufraghi in difficoltà dopo averne già salvati altri, rischia di esserecondannato piuttosto che lodato. E’ a dir poco assurdo, ma è purtroppo anche vero. Urge un ripensamento. Ma chi può indurre a pensare diversamente qualcuno se questi è ancorato solo al principio del suo cinico populismo, del suo modo di intendere l’integrazione, del suo intendere l’accoglienza un di più e non l’essenziale del vivere comune?

Urge rimettere la politica al centro dell’azione, perché tocca alla politica ricordare qui e adesso tanto il valore inalienabile del diritto internazionale marittimo quanto il valore assoluto e universale della Pace laddove la Ragione sia offuscata dalla guerra e le ragioni di un popolo vengano calpestate da un qualsiasi folle usurpatore.

LUCIANCO COSTA

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