Le parole valgono, ma se le sprechi o non le usi in maniera appropriata, allora ti rendono addirittura ridicolo. Come è capitato alla giornalista di turno che già di fronte alla telecamera s’è trovata a combattere con una regia che non funzionava, neanche in grado di mettere in onda immagini e servizi in precedenza concordati, e lei costretta ad andare avanti usando soltanto le parole che lì per lì le venivano alle labbra. Ieri l’altro, di fronte al primo telegiornale del mattino, ho visto una pur brava giornalista perdersi in raschiamenti di gola e invocazioni di scusa, cercando parole che non aveva previsto di pronunciare, cavandosela rovistando i fogli e trovando parole e sorriso solo quando la regia ha detto va bene, abbiamo risolto i problemi. Potrei ragionare sulla tecnologia che quando ha un cedimento fa cedere impalcature ritenute solidissime, come possono essere quelle di una redazione televisiva di respiro nazionale. Invece, me la prendo con chi fa il mestiere e che sa di dover essere in grado di fronteggiare ogni situazione; poi con i maestri della comunicazione, che non ci sono più, perché ormai non serve insegnare a un mondo che crede di sapere tutto.
Basta soffermarsi sui vari programmi in onda per rendersene conto. Tutti parlano di coronavirus, dei dati di diffusione, delle zone rosse che vorrebbero essere gialle e di quelle gialle che diventano arancione, dei vaccini che non ci sono e che invece dovrebbero esserci, dei bonus e dei ristori, che sono panacea di tanti mali, ma anche un guazzabuglio nel quale è facile perdere la trebisonda; tutti chiedono consigli agli esperti, e dal canto loro gli esperti fanno a gara per darli, però nemmeno per caso un consiglio assomiglia all’altro. Per cui, io ascolto, tu ascolti, noi ascoltiamo e alla fine ci guardiamo per consolarci del nostro non aver capito niente. Allora torna di moda invocare parole semplici, precise, esaustive e possibilmente univoche, soprattutto se usate per parlare di un virus che c’è e che ogni giorno obbliga a contare contagi e, purtroppo, morti.
Nel vuoto delle parole che non spiegano, ogni tanto si affacciano temi che apparentemente non c’entrano con il vissuto quotidiano. Per esempio: ieri ho ascoltato un tale che spiegava come in questo tempo di pandemia, se per molti è duro far quadrare il pranzo con la cena, per altri è una goduria veder accrescere i depositi in banca. In sostanza, spiegava costui, in tempo di lockdown sono aumentati i risparmiatori, ragion per cui i depositi sono lievitati con ciò dando l’impressione che non stiamo poi così male sebbene l’arte del piangersi addosso resta una delle più praticate. Cercando spiegazioni ho scoperto che “accumulare è un comportamento ancestrale legato alla sopravvivenza, quell’istinto che porta ad accumulare provviste e riserve da utilizzare nei momenti di carestia e difficoltà a reperire risorse”.
Poi ho anche letto quel che il filosofo Remo Bodei, recentemente scomparso, ha lasciato scritto come monito agli accumulatori di ricchezze e cose. “Le cose – riassumeva il filosofo a uso e consumo degli ignoranti – vivono a determinate condizioni: se le lasciamo sussistere accanto e assieme a noi, senza volerle assorbire; se congiungono le nostre vite a quelle degli altri; se, per loro tramite, ci apriamo al mondo per farlo confluire in noi e ci riversiamo in esso per renderlo più sensato e conforme a ideali, da discutere insieme, di interesse generale; se coltiviamo un atteggiamento capace di superare la contrapposizione tra una interiorità chiusa e autoreferenziale e una esteriorità inerte e di seconda mano; se — coscienti del fatto che nell’aldilà non potremo portarci dietro niente, perché, come dice un proverbio tedesco, “l’ultimo vestito non ha tasche” — rinunciamo a privilegiare rapporti di esclusivo possesso, accaparramento e dominio sugli oggetti; se, guardando al senso originario di eternità come pienezza di vita, abbandoniamo il vivere semplicemente alla giornata; se passiamo dall’esibizionismo del logo e dalla cultura dello spreco, ad un rapporto sobrio ed essenziale con le cose; se riusciamo a riconoscere in ognuna di esse la natura di res singularis investita in quanto tale di intelligenza, di simboli e di affetto; se allarghiamo continuamente il nostro orizzonte mentale ed emotivo evitando di perdere la consapevolezza dell’insondabile profondità del mondo, degli altri e di noi stessi”. Se ho capito, il filosofo raccomanda di vivere per la serenità e non per l’accumulo. Ma, scherzi a parte, è davvero possibile?