Ce n’era per tutti sui giornali e sui media di ieri, tranne che per i poveri. Eppure ieri era la Giornata mondiale dei poveri. I poveri, cioè dell’altra metà del cielo o, se volete, quella parte di terra in cui affonda le radici l’altra metà dello stesso cielo, ci sono e si vedono, sono scomodi, suscitano sgomento. A volte smuovono carità intelligenti, altre solo improvvisate e sbrigative elemosine, altre ancora crudeli indifferenze. “Ma è una giornata inventata dai preti e dalle suore – mi ha detto un signore al quale, facendo la fila per accedere all’edicola, avevo appunto chiesto se e come la giornata gli interessasse -, se la sbrighino loro”.
Aveva parlato ad alta voce, tanto da essere sentito anche da un marocchino, però integrato e italianizzato, che avvicinandosi mi ha voluto ricordare che per i musulmani “aiutare i poveri è un dovere grande e rispettato”. Avrei voluto dirgli che di buoni e generosi, ma anche di cattivi e taccagni, ce ne sono di qua e di là dal fiume. Invece sono rimasto muto, sempre più convinto che una “giornata” non basta a far cambiare pensieri e modi di vivere in una comunità grande come il mondo.
Poi ho pensato al titolo dato alla giornata – «tendi la mano al povero», tratta dal libro del Siracide – e ho capito che non si trattava di dare qualcosa al povero perché era la sua giornata, ma di prendersi cura della sua fragilità, quella che soprattutto in questo tempo di pandemia, lo obbliga ai margini non solo della società, ma della vita stessa. “Egli, infatti -ha scritto Giampaolo Mattei – manca del necessario per vivere e la sua stessa esistenza dipende dalla generosità e della solidarietà degli altri; ma noi, chiunque siamo e quale sia il Dio che ci ispira, – ha aggiunto – siamo chiamati a toccare con mano che ogni donna e ogni uomo è debole, che dipende dagli altri: vale per i potenti e per chi vive sotto un ponte”.
Non ho argomenti per indurre a pensare e quindi riflettere sulla condizione umana; e neppure ho pensieri da offrire a chi si crogiola nel suo star bene da solo. Però, in mezzo a questa pandemia, mi trovo di fronte a una duplice consapevolezza: la prima mostra come siamo tutti interdipendenti, per cui quello che accade in qualche parte della terra coinvolge il mondo; la seconda, mentre accentua le disuguaglianze, dice che siamo tutti nella stessa tempesta, ma non sulla stessa barca. Ragion per cui, “chi ha barche più fragili affonda più facilmente”.
Per impedire il naufragio di chi ha barche piccole e instabili, si dovrebbe incominciare a discutere il “sistema” della nostra economia e della nostra educazione: che non sono più all’altezza delle esigenze della comunità e neppure dei singoli. È una “pretesa” alta, una richiesta forte alle nostre società, alla politica, al mondo dell’economia e della cultura. Ma di fronte all’emergenza – quella dei poveri o quella dei malati di Covid, senza alcuna distinzione – nessuna pretesa deve sembrare eccessiva.