Mani Pulite: una brutta storia…

Tutto incominciò il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, soprannominato mariuolo per quel meschino modo con cui s’era accaparrato tangenti in danaro, primo atto di un’inchiesta sulla corruzione dell’allora sistema politico milanese, che poi si allargò a macchia d’olio portando alla fine della cosiddetta prima repubblica. Molto è stato detto, molto resta da dire. In questi giorni legati al trentesimo anniversario della vicenda, giornali, radio e televisioni si sono allungati in disquisizioni spesso illuminanti e altrettanto spesso oscuranti anche il poco di storia imparata a memoria e, per qualcuno, vissuta in prima persona, chi come inquirente, chi come imputato, chi come cronista del tempo. Io c’ero, e raccontando i giorni che si accavallavano sempre segnati da avvisi di garanzia annunciati-ventilati-consegnati o anche soltanto ipotizzati mi sentivo perso in una valle oscura dove bastava il fruscio di una toga per gettare scompiglio. Allora, come è stato scritto in un intelligente corsivo (si dice di una nota di costume particolarmente adatta a commentare fatti e misfatti) “a chiedere è arrivato qualcosa per me? non erano i big ma semplici parlamentari. C’era il giovane democristiano preoccupato perché per organizzare qualche convegno aveva usato dei soldi che gli aveva consegnato il tesoriere del partito. E ora temeva che fossero frutto di qualche tangente. C’era poi il socialista che dal partito aveva ricevuto soldi per un giornaletto locale senza neppure sapere da dove arrivavano. Corruzione? I pubblici ministeri milanesi ne erano convinti, anche se poi molte condanne furono solo per finanziamento illecito. Ma allora, in quei mesi, ovunque vi fosse traccia di politica, a Milano come a Roma, nelle sedi dei partiti come nel Transatlantico di Montecitorio si percepiva un misto di curiosità e paura. Quasi fosse ineluttabile che prima o poi toccasse a tutti”. In quel gran marasma, sentire che “no, anche oggi non c’è nulla”, per tanti – politici e non politici, che ormai l’inchiesta andava da ogni parte senza porre limiti ai risultati che si sarebbero ottenuti – era un sollievo. “Ma quando finirà?” chiedeva la gente ai cronisti assiepati davanti ai tribunali in attesa di notizie. “Forse domani o forse mai” rispose allora un giornalista napoletano famoso per le battute con cui condiva la cronaca e la vita.

Il 17 febbraio del 1992 quando l’allora magistrato Antonio Di Pietro ottenne l’ordine di cattura per Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio (casa di cura pubblica della città di Milano destinata agli anziani meno abbienti), che quello stesso giorno fu colto in flagranza di reato mentre intascava una tangente per pilotare gli appalti della struttura. In questa vicenda, e nel successivo allargamento delle indagini, viene individuato l’inizio di una serie di inchieste giudiziarie sulla corruzione del sistema politico e istituzionale, condotte in Italia nella prima metà degli anni Novanta, che presero il nome giornalistico di Mani pulite o Tangentopoli. “Quella lunga stagione di inchieste, arresti e processi –ha scritto Marco Guerra – arrivò a toccare personaggi al vertice dei partiti e dell’imprenditoria italiana, portando ad una vera e propria crisi del sistema politico ed economico e a quello che viene considerato, da storici e politologi, il crollo della cosiddetta prima repubblica, ovvero il sistema sociale, politico ed economico sorto dalle ceneri del secondo conflitto mondiale e durato per quasi cinquant’anni. Di fatto furono travolte e scomparvero le formazioni della coalizione di governo del ‘Pentapartito’ (Dc,Psi,Pri,Pli e Psdi) e le indagini colpirono solo parzialmente anche il Pds appena nato dal disciolto Partito comunista italiano”.

Le inchieste di Mani Pulite accelerarono un cambio all’interno della classe dirigente italiana ma non mancarono le pagine più nere e controverse come quella dei suicidi (oltre 40) di persone coinvolte nelle indagini e spesso colpite da carcere preventivo prima del processo. In cifre l’inchiesta Mani pulite vide oltre 25mila avvisi di garanzia, 4.525 arresti, 1.300 condanne e patteggiamenti e 430 assoluzioni. “In questa cornice – ha scritto Torriero, esperto di politica e comunicazione – c’era poi una costante, quella di una Repubblica con una politica debole, ciclicamente commissariata, ora dalla magistratura ora dai tecnici”.

Oggi è possibile dire che con Mani pulite non sono cambiati solo i protagonisti della politica ma anche il modo di fare politica, l’organizzazione interna dei partiti e la comunicazione. Infatti, con Tangentopoli, dicitura che includeva il concetto di mani pulite esasperato dai pubblici ministeri e fatto proprio dai media, “finiva l’era del partito ideologico e nasceva l’era della formazione post ideologica, prima televisiva e poi informatica”.

Ma, cosa è stata l’inchiesta Mani Pulite? In trent’anni, a questa domanda sono state date, allo stesso tempo, troppe e troppo poche risposte. “Troppe a livello pubblico – ha scritto Alberto Guasco -, e quasi tutte prigioniere della controversia politico-giudiziaria sorta durante l’inchiesta, convinta di raccontarne la vera storia degli anni 1992-1994, quelli soprannominati parte di un passato che non aveva modo di passare. Troppo poche, invece, sono state le risposte sul piano storico, dove, tra molti ostacoli, tre questioni in particolare sembrano ancora fare da tappo per il passaggio di Mani Pulite dal mito alla storia”. La prima riguarda la “tribunalizzazione della storia, là dove la storia «quanto più giudica, tanto più condanna; e quanto più condanna, tanto più rimuove. Sicché, alla fine ci si ritrova fra le mani un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale». Tutto ciò ha fatto oscillare l’ago del giudizio tra due preconcetti opposti: Mani Pulite come inchiesta solo giudiziaria, visione cara a chi, difendendo i magistrati dalle accuse di politicizzazione, ha finito per negare sia una parte della percezione dell’inchiesta sia i suoi effetti; Mani Pulite come operazione politica mascherata da inchiesta e tesa a distruggere un pezzo di classe dirigente del Paese. La seconda riguarda la “parzialità della storia raccontata per verdetti alla quale si è opposta quella d’una storia raccontata per complotti: Mani Pulite come complotto di Giulio Andreotti, no dei servizi, no degli americani, no delle toghe rosse (che già allora si diceva fossero la longa manus dell’ex Pci), no dei poteri economico-finanziari…”

Di tutto e di più. Certo, che nel cambiamento, addirittura nel vortice scatenatosi, “questi e altri attori – aggiunge Guasco – si siano mossi per condizionarne gli esiti è da sprovveduti non pensarlo. La terza questione riguarda le tre personalizzazioni, rappresentate da Di Pietro, Craxi e Berlusconi, che hanno ristretto il campo e la sua narrazione. Per l’ex pubblico ministero l’inquinamento risiedeva nell’edificazione e nell’(auto)distruzione del proprio mito. Il sentire degli ambienti più vicini a Craxi s’è invece fatto proposta storiografico-editoriale volta a restituirgli l’onore perduto. In quanto a Berlusconi, nel contesto di nascita della malamente detta Seconda Repubblica, l’inizio del suo lungo de bello giudiziario contro la magistratura è coinciso con la conclusione di Mani Pulite, finendo per diventarne l’immagine finale”.

Chiedersi adesso, trent’anni dopo l’inizio della vicenda, quel che resta ancora da fare equivale a dire che è urgente (ri)mettersi al lavoro per ridare profondità e contorni certi a quella storia. Così facendo, forse, capiremmo la dimensione della storia e magari scopriremmo le portata di fatti, misfatti e comportamenti che negli anni si sono aggiunti…

LUCIANO COSTA

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