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Migranti ridotti a schiavi e diritti umani calpestati

I migranti ridotti a schiavi: non ci sono altri termini per indicare le atrocità denunciate dall’Onu che, in un rapporto della missione d’inchiesta presentato ieri a Ginevra, parla di crimini «contro l’umanità» nei confronti di «libici e migranti in tutta la Libia», perpetrati nei centri di detenzione. La missione internazionale, incaricata dell’indagine a metà 2020 dal Palazzo di Vetro, si è detta profondamente preoccupata per il deterioramento della situazione dei diritti umani nel Paese nordafricano, concludendo come ci sia «motivo di credere» che crimini di guerra e contro l’umanità «siano stati commessi dalle forze di sicurezza dello Stato e dalle milizie armate», in un quadro generale di instabilità per oltre un decennio di grave crisi politica. La Libia è infatti ancora lacerata da profonde divisioni, complicate da interferenze straniere, tra il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, e l’esecutivo con sede a Sirte guidato dal premier Fathi Bashagha, nominato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, con la Cirenaica di fatto controllata dal generale Khalifa Haftar.

Il documento dell’Onu sottolinea in particolare «motivi ragionevoli per ritenere che la schiavitù sessuale» sia stata inflitta ai migranti, in particolare donne, provenienti perlopiù dall’Africa subsahariana, riferendo di aver documentato al contempo numerosi casi «di detenzione arbitraria, omicidio, tortura, stupro», come pure di «esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate». La missione si è inoltre soffermata sui rimpatri forzati in Libia di migranti intercettati nel Mediterraneo. Il documento cita in particolare la Guardia costiera libica, sostenuta dall’Unione europea nel corso degli anni. «Le persone non possono essere riportate in aree non sicure», ha spiegato in conferenza stampa un membro del team delle Nazioni Unite, precisando che «il sostegno fornito ha aiutato e favorito la commissione dei crimini» stessi. E’ stato inoltre annunciato che tutte le informazioni raccolte saranno condivise con la Corte penale internazionale, compresa una lista di individui indicati come possibili autori dei crimini.

Alla denuncia della Commissione Onu s’aggiunge quella di Amnesty International che nel rapporto sui diritti umani 2022-2023, presentato l’altro ieri, denuncia il ritorno della guerra in Europa, le proteste di piazza represse nel sangue in 30 Paesi, l’inadeguatezza della comunità internazionale e la poca attenzione prestata ai diritti umani. Dice il rapporto: “Nel 2022 sono scoppiati nuovi conflitti, altri sono ripresi e alcuni, di lunga data, sono proseguiti. Sul campo, le violazioni del diritto internazionale umanitario hanno causato terribili tragedie umane. Le risposte internazionali sono state contradditorie, sia rispetto al grave impatto sui diritti umani dei diversi conflitti che alla protezione delle persone che da questi fuggivano, oltre che di fronte a gravi violazioni sistematiche, alcune delle quali equivalenti a crimini contro l’umanità”. La fotografia fornita dal rapporto di Amnesty International mette in evidenza la situazione dei diritti umani in 156 Paesi del mondo.

Lo scorso anno, spiega il rapporto, è stato inevitabilmente segnato dall’invasione russa dell’Ucraina, un conflitto “che ha rivelato i doppi standard della comunità internazionale, perché se la risposta dell’Occidente all’aggressione russa dell’Ucraina è stata molto vigorosa e immediata, rispetto ad altre crisi dei diritti umani c’è un silenzio inquietante”. Altre crisi con uccisioni di civili di massa si sono verificate, sottolinea il rapporto, in Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e nella regione del Sahel, oltre ai conflitti di lunga data in Libia, Siria e Yemen. “Ma la gestione della crisi dei diritti umani a livello internazionale ha mostrato ancora una volta di essere profondamente inadeguata”. Infatti, “all’accoglienza degna, finalmente, degli ucraini non corrisponde lo stesso impegno per chi viene da sud e da est”.

In 87 Paesi del mondo, dice inoltre il rapporto, “ci sono state proteste di piazza e in 30 di questi, con morti tra i manifestanti, soprattutto in Myanmar, Afghanistan, Iran, Perù. “Sono quattro dei tanti Paesi in cui le proteste, perlopiù pacifiche, sono state stroncate con una forza estrema: quasi cinquanta persone sono morte in Perù, oltre cinquecento in Iran. Eppure – aggiungono i responsabili di Amnesty International – la protesta pacifica rimane lo strumento nelle mani della società civile per pretendere un cambiamento nel campo dei diritti umani”. Il rapporto sottolinea che i miglioramenti registrati lo scorso anno nel campo dei diritti umani riguardano soprattutto l’abolizione della pena di morte.

L’auspicio per il futuro, conclude il rapporto “è che non ci sia un altro capitolo così fitto di notizie drammatiche sull’Ucraina come quello che compare in questo rapporto e che la comunità internazionale si doti finalmente degli strumenti adeguati per risolvere le crisi”. Per affrontare le crisi che ancora il futuro riserva è però necessario dare il via alla riforma, ormai inevitabile, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che “deve passare attraverso l’abolizione del diritto di veto degli Stati membri permanenti”. Inoltre, si legge a conclusione del rapporto, “riconoscere la protesta pacifica come diritto fondamentale” rappresenterà il nuovo modo di intendere le relazioni umane…”.

LUCIANO COSTA

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