C’è di tutto e di più in questa campagna elettorale che tende a ridurre il vissuto quotidiano a una sorta di gioco al ribasso in cui la promessa domina e la verità langue. Parole, parole, parole su parole. Sulla strada dei candidati ci sono sempre microfoni in agguato e domande (banali) pronte per essere formulate. Le interviste abbondano e dalle mie parti ne ho lette, ne leggo e ne leggerò tante altre, tutte languide, tutte melense-velleitarie-ossequienti-concordate… I maestri di giornalismo, fin quando hanno avuto modo di dire la loro, mettevano in guardia dal ricorrere a domanda e risposta per riempire le pagine. “Usate l’intervista – dicevano ai redattori – non come balcone dal quale lasciar raccontare, ma come androne affollato in cui l’intervistato non ha possibilità di scampo: o risponde o affossa”. C’è veramente tanto in questa campagna elettorale che si trascina tra sterili polemiche e scarse verità. Ma accanto al tanto c’è il poco dedicato ai problemi che investono la sfera del vivere normale: lavoro, felicità, salute, scuola, disagio, crescita omogenea, disperazione, suicidi (quelli in carcere fanno paura, ma quelli che toccano la sfera giovanile adolescenziale sono devastanti). Ecco, il suicidio che investe i giovani e gli adolescenti, è solo un fenomeno transitorio o è questione di cui la politica dovrebbe obbligatoriamente e sistematicamente occuparsi?
Innanzitutto, il suicidio che investe la sfera giovanile non è una sorpresa: mette in chiaro l’abisso di disperazione e di disagio in cui sono sprofondati i nostri adolescenti negli ultimi anni e nessuno dovrebbe restare indifferente. La pandemia, col suo carico di solitudine forzata, in quel buco nero ha scavato, e scava ancora, finendo per trasformarlo in una condizione esistenziale senza via d’uscita per moltissimi ragazzi: insonnia, attacchi di panico, depressione, anoressia o bulimia, dipendenza, autolesionismo. E chissà quanti come Alessandro, il 13enne di Gragnano morto suicida settimana scorsa, non sanno reagire, non hanno il coraggio di affrontare la sofferenza e diventano vittime di quelli che – per lo stesso disagio – si trasformano invece in predatori dei propri coetanei, “bulli” come siamo abituati a chiamarli.
Una conta fatta a spanne, in queste ore, ha provato a farla Telefono amico, la linea di emergenza presente nel nostro Paese ormai dagli anni Sessanta: niente di troppo tecnologico, solo una voce dall’altro capo della cornetta h24 per rispondere a chi ha bisogno d’aiuto. Ebbene, nel 2021 le chiamate di persone attraversate dal pensiero del suicidio o preoccupate per il possibile suicidio di un caro sono state quasi 6mila: oltre il 55% rispetto al 2020, quasi quattro volte tante rispetto al 2019, cioè prima della pandemia. E c’è di più: quest’anno, delle 2.700 telefonate d’emergenza già registrate, il 28% hanno visto come protagonisti giovani sotto i 25 anni. È la punta dell’iceberg, naturalmente: secondo l’Istat sono 220mila i ragazzi tra i 14 e i 19 anni insoddisfatti della propria vita e, allo stesso tempo, in una condizione di scarso benessere psicologico. Senza contare gli innumerevoli allarmi lanciati a più riprese da neuro-psichiatri, psicologi, medici di base, insegnanti, educatori, associazioni di genitori.
Che fare per arginare e annullare il triste fenomeno? Arrivare prima di un suicidio si può, ed è la scienza che psichiatri ed esperti studiano dalla metà degli anni Cinquanta. Elementi premonitori e segnali esistono, sono stati analizzati e messi nero su bianco. “Oggi gli studi e le analisi del fenomeno – dicono gli scienziati – permettono il riconoscimento precoce di quelli che sono definiti soggetti a rischio, ma ancora non basta. Servono formazione e informazione, e serve che il suicidio non sia più trattato come un argomento tabù, soprattutto con gli adolescenti”. Ma come è possibile capire che qualcosa non va, che il ragazzo è a rischio, che nel ragazzo sta prevalendo la disperazione, che dietro l’angolo, sia giovanile che adulto, si nasconde la voglia di chiudere tutto rinunciando a vivere? “Innanzitutto – spiega l’esperto – andrebbe sempre prestata grande attenzione alle comunicazioni verbali: frasi come «mollo tutto» o «a che serve vivere» o ancora «non ce la faccio più» non dovrebbero essere mai sottovalutate. Il sonno è un’altra spia da tenere sotto controllo: l’agitazione notturna e l’insonnia sono sintomi chiari di una situazione di disagio. Ancora, cambiamenti repentini di umore (da fasi di sofferenza ad altre di grande sollievo), gesti eloquenti e dirompenti (la rinuncia a un oggetto a cui si teneva tanto, il mettere a posto le proprie cose e i propri affari). Naturalmente nei più giovani questi segnali possono essere più mascherati: i cambiamenti vanno recepiti, richiedono occhi in grado di vederli…”.
I primi a rendersi cono dei disagi vissuti dovrebbero essere i genitori… Ma non solo loro. Accorgersi dipende dall’attenzione di tanti, dipende dal cosiddetto sistema – sociale, scolastico, religioso, civile: chiamatelo come volete -, che dovrebbe prevedere le situazioni di rischio e porvi rimedio, che dovrebbe rimuovere gli ostacoli che impediscono un’accettabile esistenza (è scritto nella Costituzione e ciascuno è chiamato a contribuire affinché l’accettabile esistenza, fatta di educazione civica vissuta, di sapere diffuso, di lavoro assicurato a i cittadini, chiunque essi siano), che non dovrebbe lasciare indietro nessuno… Di fronte al disagio giovanile, quello evidenziato drammaticamente dalle cifre che riguardano la disperazione che porta a mollare tutto, servirebbe prevenire, cioè immaginare prima per essere pronti, prima che accada, a offrire risposte appropriate. Ma la prevenzione è uno sforzo congiunto, da compiere tutti insieme: famiglia, amici, insegnanti, medici. E per arrivare prima servono formazione e informazione. Invece, in questo nostro bel Paese, si parla ancora troppo poco di suicidio giovanile: qui il tema viene considerato tabù mentre dovrebbe essere affrontato, discusso e meditato a cominciare dalla scuola, dove ai ragazzi, insieme al sapere di base, dovrebbe essere offerta la possibilità di mettere in chiaro i loro problemi esistenziali, spesso drammatici, spesso misteriosi, spesso ritenuti a torto esagerazioni alle quali non prestare eccessiva attenzione. Invece, dicono gli esperti “dobbiamo parlare a loro di cosa può accadere nella mente, quando ci si trova in un tunnel senza uscita; dobbiamo insegnare loro a reagire, a parlare, anche quando in questo tunnel vedono entrare i loro coetanei; dobbiamo, noi adulti educatori, avere il coraggio di chiedere al ragazzo in difficoltà se ha pensato di togliersi la vita come soluzione ai suoi problemi…. Per quanto scomoda e terribile possa essere, la domanda andrebbe posta senza troppi problemi e senza esitazione, senza ritardo”.
Poi, o prima, la politica dovrebbe la sua parte. Non servono leggi, servono azioni che consentano ai ragazzi di guardare al futuro con ragionevole speranza di successo. Serve prendersi cura di chi vive il disagio. Ma di questa somma virtù i politici (tanti se non proprio tutti) neppure conoscono l’esistenza.
LUCIANO COSTA