Oggi silenzio, domani si vota, posdomani si fa la conta dei voti e si ricomincia a litigare. Dodici milioni di italiani al voto, qualche migliaia di liberi cittadini impegnai a chiederne alcuni per sé e tanti per l’idea che li ha affascinati o solo invogliati a correre il rischio di metterci la faccia e magari ritrovarla peggiore di come era prima, qualche decina di capi, capini e capetti o se preferite di cape, capine e capette in giro a fare moine, a insultarsi, a fare promesse sapendo di mentire ma con la presunzione di essere comunque ascoltati, creduti e magari votati. Costoro, per un mese intero (alcuni anche per molto più tempo), hanno sciorinato parole senza senso, evitato qualsiasi confronto, si sono preoccupati di mettere tra loro e gli altri steccati e trappole, si sono esaltati attingendo al sacco dei desideri, hanno confezionato tali e tante promesse da rendere ridicola la grande fabbrica di promesse e sogni tanto attiva e di moda nel paese dei balocchi.
L’altro ieri, a un tale che chiedeva voti, hanno chiesto di offrire almeno una ragione che sostenesse la richiesta. Con assoluta nonchalance ha risposto che le ragioni le avrebbe mostrate dopo. Gli hanno allora proposto di parlare di politica, che in fondo è la base su cui si costruisce la società; ha detto che se ne frega della politica, che lui uomo di fatti e di pulizia, non di teorie strampalate messe sotto la coperta politica per farle sembrare l’essenza della civiltà. Gli hanno chiesto di disegnare la città dell’uomo che vorrebbe costruire o ricostruire; ha tracciato una linea e spiegato che oltre quella linea nessun indesiderato avrebbe trovato accoglienza. Poi, prima di andarsene, ha lanciato il suo grido preferito: “Votatemi, votatemi e vi dimostrerò come si cancella la città musona e se ne inventa una goduriosa”.
Ieri a Roma, città in odore elettorale, una telecamera rai a dir poco ossequiosa ha immortalato l’incontro affettuoso tra due dei tre capi della destra coalizzata certo per vincere ma anche per evitare di naufragare ognuno nel suo mare. In quella sequenza amorevole Matteo Salvini, reduce da una rimpatriata milanese finita con una fotografia monca, cioè priva della componente femminile della coalizione, abbracciava Giorgia Meloni (quella che mancava alla foto milanese) tenendo lo sguardo dritto in camera, così che fosse chiaro il suo sincero, affettuoso e protettivo trasporto verso la compagna (immagino occasionale) dell’avventura elettorale sotto il cielo dell’Urbe. E Giorgia Meloni? Ovviamente, si lasciava abbracciare. Così voleva il copione stabilito, così si doveva fare. Tutti e tre i destra-centro d’accordo?
Forse sì o forse proprio per niente. Infatti, Silvio Berlusconi affidava alla stampa una dichiarazione sibillina: “Non sono all’altezza, senza di me non sono nessuno”. Il Silvio di Arcore e di cento altre residenze, che festeggiando gli 85 anni dichiarava di non essere il terzo ma il primo della coalizione, assicurava così di avere ancora energie sufficienti sia per mettere in riga eventuali dissidenti, sia per salire l’irto Colle… Dall’altra parte della barricata elettorale, Enrico Letta, detto l’educando, per il suo vecchio e malconcio PD chiedeva consensi proponendo solidarietà e umanesimo visibile e condiviso mentre il bischero Matteo Renzi (con lucida faccia di tolla) declamava la bellezza di ciò che restava delle sue truppe. E gli altri? Parole, parole, niente altro che parole.
La tornata elettorale di domani, rigorosamente amministrativa, riguarda comuni grandi e piccoli e quindi non influirà sull’andamento politico generale. Vale a dire, non cambierà gli assetti parlamentari e neppure creerà al Governo di Mario Draghi più pensieri di quanti ne possieda. Però l’appuntamento, che incomincia domani mattina e che chiuderà i battenti lunedì pomeriggio, dirà di che umore sono dodici milioni di italiani. Stando ai si dice e alle tendenze rilevabili, gli italiani al momento hanno due certezze: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per il quale tanti, tantissimi auspicano-sperano-sognano la sua conferma al Colle; il Presidente del Consiglio Mario Draghi, che tanti, tantissimi vorrebbero alla guida del Governo fin quando necessità diverrà virtù consentendo al Paese risanato, ripreso e ripartito di andare a testa alta per le strade del mondo. Teorizzando il futuro. Il panorama migliore sarebbe quello che mostra Mattarella e Draghi dove sono; quello peggiore, invece, destinato a rappresentare i due messi da parte e l’accozzaglia di venditori di fumo pronta a rivendicare il diritto di dire e fare quel che vuole. L’altro panorama, più veritiero che sognante, raffigura Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica (ne ha i titoli e le qualità) con tanti piccoli indiani pronti a dare l’assalto al fortino. Il panorama di riserva, che spero resti tale, colloca il vecchio ma sempiterno innamorato Silvio Berlusconi al Colle grazie ai voti del sopravvissuto centro-destra e di qualche assistito aggiuntosi strada facendo, con fedelissimi Fido pronti a mettersi a disposizione del signorotto giunto al fin dove voleva arrivare.
Se riusciremo, io e voi, a sopravvivere a questa tornata elettorale e al putiferio di parole che seguiranno, ne vedremo delle belle. C’è qualcosa di vecchio e stantio in tutti i dibattiti di questi tempi; c’è carenza di politica di servizio e abbondanza di politica di potere; c’è anche un menefreghismo diffuso rispetto al dovere di assumere responsabilità per dare buon futuro al Paese.
E non è una bella prospettiva.
LUCIANO COSTA