Venivano da ogni parte del mondo conosciuto e si sfidavano nella corsa, nella lotta, nel alto, nel lancio del giavellotto o del martello… Vincevano niente, però il titolo di Primo all’Olimpiade lo avrebbero portato addosso tutta la vita. Erano le antiche Olimpiadi, quelle che per il tempo necessario a misurare le forze degli atleti e onorare il Sommo del monte Olimpo, fermavano le guerre e i conflitti li metteva in archivio. All’Olimpiade regnava la pace e il fuoco sacro acceso dalle vestali a Olimpia era rispettato e onorato con la pace, momentanea-breve-illusoria-silente ma pur sempre pace: assenza di offese e di fendenti minacciosi, condivisione di ciò che la terra offriva e che la gente portava agli atleti… Non c’è traccia, neppure sotto le ceneri di Olimpia, di quel tempo. Eppure, l’idea di un tempo in cui nessuna guerra può essere dichiarata e tano meno guerreggiata, è così suggestiva da essere di diritto inserita nel gran libro del “bello e impossibile”. Però, come dice la piccola Vittoria, “dopo vengo”, che per lei equivale a dire “e col sorriso metto tutto a posto”.
Nostalgia di ciò che era? Forse. O forse solo obbligata sottomissione alle logiche della modernità, che delle vecchie Olimpiadi a cui portavano muscoli e ingegno atleti proveniente da ogni parte del mondo conosciuto, hanno fatto brandelli. Una volta si diceva “ecco gli atleti del mondo conosciuto” ed era chiaro che a ciascuno dei contendenti avrebbe provveduto la generosità di Zeus, divinità del cielo e della luce; adesso si deve dire “ecco gli atleti del mondo che può”, perché c’è da investire e spendere non poco per esserci e per stare sapendo che Zeus è scomparso e gli Sponsor che avrebbero dovuto sostituirlo sono ridotti al lumicino
In ogni caso Tokyo, novella Olimpia, si prepara a vivere le Olimpiadi (incominciano venerdì), le prime segnate dalla pandemia. Come saranno, procederanno e si concluderanno nessuno lo sa. Di sicuro non avranno altri spettatori che quelli inseriti di diritto nella schiera degli atleti. Altra certezza è che in caso di conquista di una medaglia, quella medaglia dovranno infilarsela al collo da soli. Misteriosa e attesa, invece, è la sfida tra Olimpiade e Pandemia, due atlete fino a ieri sconosciute, in programma chissà dove e chissà quando. Ma in questo caso, per favore, nessuno s’azzardi a dire “vinca il migliore”. Semmai si dica “perisca Pandemia” lasciando a Olimpiade l’onere di continuare la maratona.
Scherzi a parte: come saranno queste novelle Olimpiadi? Secondo Alessandro Gisotti, abile commentatore di costumi, saranno “Olimpiadi tristi”. A Tokyo, infatti, per evitare la diffusione del Covid19, non ci saranno spettatori sugli spalti degli stadi, gli abbracci tra gli atleti non saranno permessi, gli olimpionici dovranno mettersi da soli le medaglie al collo per evitare ogni possibile contatto. “Un anno dopo il posticipo dei Giochi Olimpici – annota Gisotti – il Giappone si prepara a vivere l’evento sportivo per antonomasia con sentimenti tra loro contrastanti: gioia e tristezza, orgoglio e preoccupazione. Tuttavia, in queste Olimpiadi dallo svolgimento inedito per le rigide misure anti-contagio, potrà forse emergere più nettamente il significato (e il valore) di un avvenimento che fin dal suo simbolo – i cinque anelli intrecciati – porta con sé lo spirito di fratellanza e la concordia tra i popoli. Un messaggio di cui c’è oggi sicuramente gran bisogno, mentre ci troviamo “tutti sulla stessa barca” e affrontiamo, tra non poche difficoltà, un cambio d’epoca inatteso dalle conseguenze ancora imprevedibili”.
Però, anche in queste strane Olimpiadi, c’è l’occasione per sottolineare “il potenziale educativo dello sport per i giovani, l’importanza del “mettersi in gioco” e del fair play, come pure il valore della sconfitta, perché la grandezza di una persona la si vede più quando cade che quando trionfa, nello sport come nella vita”. Parole illuminanti e sante. Ma non le ha dette il gazzettiere di turno e neppure le ha scritte il pubblicitario più scafato che ci sia. Invece, le ha dette un Papa venuto dall’altra metà del mondo, che ha scelto di chiamarsi Francesco perché fosse chiaro a tutti che avrebbe parlato agli uomini e alle donne, ma anche ai lupi e alle pecore e agli uccelli…
Qualche tempo fa in una intervista secondo me fatta apposta per mettere in chiaro l’abilità di Francesco nel mettere le coscienze in subbuglio, rispondendo alla domanda sul valore della vittoria, con la pazienza del giusto disse: “La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglioso (…) Da certe sconfitte nascono delle bellissime vittorie, perché individuato lo sbaglio, si accende la sete del riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa cosa si perde”. Secondo questa teoria, in un tempo segnato da fratture e polarizzazioni di ogni tipo, lo sport può quindi essere “uno di quei linguaggi universali che supera le differenze culturali e sociali, religiose e fisiche, e riesce a unire le persone, rendendole partecipi dello stesso gioco e protagoniste insieme di vittorie e sconfitte”.
Oggi, più che mai, la sfida non è solo conquistare la medaglia d’oro – sogno e obiettivo di ogni atleta olimpionico – ma vincere, tutti insieme, qualcosa in più. Per esempio, come ha scritto Gisotti “la medaglia della fratellanza umana…”.
LUCIANO COSTA