Durante un acceso confronto (andato in onda su La7”) sull’aumento delle spese militari e sul conflitto fra Russia e Ucraina, il giornalista del Corriere della Sera Federico Rampini ha attaccato il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio – per il quale le sanzioni economiche «sono come bombardamenti: non piegano i regimi, ma piagano i popoli, si blocca il grano in Russia e si muore di fame in Nord Africa» – ritenendo «ignobile» il «mettere sullo stesso piano sanzioni e bombardamenti» e accusando Tarquinio di essere «uno dei tanti che lavorano per Putin». Conosco Marco Tarquinio, leggo i suoi articoli, condivido la sua idea di un cristianesimo che sta dentro la società per migliorala, quindi sono sicuro che non lavora per Putin, ma per la pace. Come me sono convinti di questo quelli che si sono espressi in sua difesa: esponenti politici di diverso orientamento, rappresentanti dell’associazionismo, personalità della cultura, dello sport, semplici lettori. Detto questo, resta attuale la questione che contrappone pace e pacifismo, sulla quale corrono troppe parole insensate e affrettati giudizi. Da qui la necessità di chiarire e chiarirsi le idee. Un contributo rilevante alla chiarezza l’ha offerto ieri Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, attraverso un articolo che al coraggio del dire e spiegare ha aggiunto riflessioni personali utili a far comprendere il contesto in cui si muovono pace e pacifismo. Credo valga la pena leggere e meditare quel che il sociologo ha scritto.
(L. C.)
E’ dovere di tutti ricercare la Pace…
La distinzione troppo manichea tra pacifisti e guerrafondai, tra sostenitori delle ragioni delle armi e oppositori del loro uso, tra chi è favorevole all’aumento delle spese militari e chi vorrebbe una loro diminuzione, rischia di essere fuorviante. Bisogna uscire da questa logica binaria, da questa contrapposizione troppo facile. Non è pacifista chi si dice a favore della pace, ma chi fa qualcosa di concreto per produrre pace. Non è guerrafondaio chi sostiene che gli ucraini hanno il diritto di difendersi dall’aggressore anche con le armi, ma chi pensa che le armi siano l’unico modo per reagire all’aggressione russa. E, infine, il problema non è quanto, ma come si spende: se aumentassimo le spese militari per organizzare un esercito di attivisti esperti nelle forme di difesa popolare nonviolenta, di resistenza e di boicottaggio, oltre che nell’uso delle armi come extrema ratio, si tratterebbe di denari spesi bene, utili in tempo di pace e per preparare la pace, oltre che in tempo di guerra.
Chi si considera nonviolento non è un’anima bella che immagina un mondo ideale privo di conflitti, e si sottrae persino all’idea di prendere posizione di fronte ad essi. Il nonviolento vede con chiarezza la dinamica dei conflitti, prende una posizione ferma contro l’ingiustizia, contro l’aggressore e dalla parte dell’aggredito, ma cerca tutti i mezzi possibili per scongiurare un’inutile escalation del conflitto, esplorando le possibili soluzioni precedenti e alternative alla guerra.
Sono un antico obiettore di coscienza. Per me impugnare le armi non è un’opzione. Credo che in molte situazioni (ma ho l’onestà di dire: non in tutte) sia possibile trovare mezzi diversi, e persino più efficaci, per combattere un nemico, un aggressore, rispetto all’uso della stessa forza che sta usando lui. Ma ho sempre pensato che questo valga per la mia coscienza. E non implica che sia sbagliato, o moralmente ingiustificabile, rispondere alla violenza difendendosi anche usando la violenza, da parte di chiunque. Tanto meno presuppone una superiorità morale di chi rifiuta di combattere, rispetto a chi sceglie di lottare: al contrario, bisogna riconoscere la virtù o il coraggio di chi si ribella all’imposizione, pagandone il prezzo, in qualsiasi modo lo faccia.
Credo che di fronte a un’aggressione plateale e ingiustificata come quella russa nei confronti dell’Ucraina sia necessario prendere una posizione chiara ed esplicita a fianco dell’Ucraina. Questo, da fuori, può essere fatto in tre modi, tra loro compatibili e non mutuamente escludentisi: a) inviando armi a chi ritiene di dover combattere contro la prepotenza dell’esercito russo, costringendolo a trattare da una posizione di non totale asservimento e dunque debolezza della parte aggredita; b) aiutando la popolazione civile con supporto materiale e morale, come fanno le ong e le organizzazioni di cooperazione impegnate nella risposta all’emergenza umanitaria, ma anche come ha fatto l’Unione Europea imponendo sanzioni e sequestrando patrimoni di sostenitori del regime russo, e boicottando attivamente le istituzioni dell’aggressore, come fa Anonymous; c) aiutando tutte le persone sfollate a trovare una nuova casa a casa nostra. Non fare nulla, tanto più in nome del pacifismo, non è accettabile.
Nessuna opposizione alla guerra è credibile se non si paga un prezzo personale e non si attiva una testimonianza diretta. Chi combatte come partigiano lo fa costruendo la resistenza armata, e chi vuole sostenere la resistenza armata senza combattere in prima persona, anche per non allargare il conflitto ad altri fronti, lo fa inviando armi. Chi combatte usando l’arma economica e la moral suasion, lo fa con le risoluzioni dell’Onu, con sanzioni che producono un costo anche su chi le dichiara e l’isolamento internazionale dell’aggressore, con il supporto al dissenso interno e la promozione di tavoli di trattativa che manifestino un sostegno attivo all’aggredito, aprendo tuttavia a soluzioni praticabili per terminare il conflitto prima possibile, riducendo le sofferenze della popolazione civile e cercando di limitare quelle dei soldati di ambo le parti. Chi aiuta i profughi a trovare una sistemazione, manifestando così concretamente la propria solidarietà, combatte per così dire su un fronte interno, alla propria coscienza e al proprio Paese. Ma forse si può fare un passo ulteriore. I cittadini comuni che vogliono sostenere la causa dell’aggredito in maniera pacifica non hanno altra arma che sé stessi. Possono manifestare sostegno alle scelte fatte dai propri governi, anche se implicano un costo pure per sé. Possono impegnarsi attivamente per promuovere discussione e consapevolezza, senza abdicare mai al dovere di sostenere le ragioni dell’aggredito contro l’aggressore: in maniera equilibrata, ma non equidistante. Possono finanziare gli aiuti personalmente, o attivarsi direttamente nella solidarietà e nell’ospitalità. Ma credo che potrebbero fare anche altro.
Siamo contro il conflitto? Ci crediamo davvero? Siamo pronti a pagare un prezzo, a fare dei sacrifici, per questo? Siamo, davvero, credibilmente, contro la guerra e a favore della pace? Testimoniamolo. La sola altra arma che abbiamo – se vogliamo che tacciano altre armi – è il nostro corpo. Usiamolo: non in alternativa alle altre forme di lotta e resistenza, ma al contrario in collegamento e in collaborazione con esse – come un’arma ulteriore a disposizione dei resistenti e, perché no, dei governi. Andiamo a praticarla, questa solidarietà, questo impegno attivo contro la guerra e contro l’ingiustizia: con una grande marcia della pace (ma non a casa propria: troppo facile!) che coinvolga milioni di cittadini europei, che si mettano in cammino verso l’Ucraina, e poi verso la Russia (ma anche dentro l’Ucraina, e dentro la Russia, per quanto possibile). In maniera organizzata. Sostenuti dalla logistica pacifica dei governi e delle organizzazioni della solidarietà transnazionale. Ma disposti a correre dei rischi, come li corre chi combatte. Mettendo in conto la possibilità di essere attaccati: e non fermandosi al primo morto, come non lo fa la resistenza armata. Sfidando le bombe con la civiltà e la forza del dialogo e della testimonianza personale, ma moltiplicata per milioni: una pacifica forza di interposizione, un impegno attivo ma non bellicista e non belligerante.
STEFANO ALLIEVI
Sociologo, Università di Padova