Rubo i versi al poeta e dico che “non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo…” di cronache tristi e intristenti, che deprimono, rendono grama la giornata e precaria ogni ventata di ottimismo. Vado oltre, mi accaso in quell’arcipelago di sano e nostrano provincialismo che si chiama Cremona. Sì, proprio lei, Cremona: vicina quanto basta per sentirla sorella, concorrente sul terreno della buona agricoltura, dirimpettaia intelligente in fatto di cultura, gemella per generosità e capacità di fare bene il bene. Oggi a Cremona va in scena la Festa del Torrone, che è il trionfo del buono oltre che occasione per metter in mostra tutto il bello che possiede. La festa durerà fino al prossimo 21 novembre tra bancarelle cariche di torroni, varie leccornie e molteplici prodotti di rara eccellenza. Sarà possibile assaggiare, ma proibito abbuffarsi e invece logico godere quel che viene messo in mostra e bello camminare per vie e piazze avendo un sottofondo musicale impreziosito dalle canzoni di Mina, cremonese doc, lontana ma vicina alla sua città e alla sua gente. “E se domani, e sottolineo il se, all’improvviso…” ci si vede a Cremona, magari sotto il Torrazzo, sarà bello-bellissimo scoprire che in fondo basta poco – una stecca di torrone, per esempio – per eliminare i confini e sentirsi amici veri.
Tutto accadrà oggi e nei prossimi nove giorni. Costi quel che costi, non mancherò all’appuntamento. Cremona, aspettami! Come quella volta che partito da Brescia per andare a vedere come se la cavavano i cugini cremonesi nel settore agricolo, quello che anche da noi vantava buonissime referenze, senza troppo badare al Po che in quei giorni minacciava di superare gli argini e di mettere i ponti in quarantena, trovando bizzarro il dover parlare per raccontare due agricolture gemelle e all’avanguardia in cui non c’erano, non si percepivano e non albergavano paure di recessioni imminenti, dirottai attenzioni e sguardi televisivi verso quelli che i salutisti più incazzosi (c’erano e al popolo dei golosi gridavano: “Attenti, per voi mala tempora corrunt”) definivano ultimi facitori di golosità temerarie, cioè mastri pasticceri in grado di compromettere il benessere delle folle offrendo torrone, mostarda e graffioni in quantità esagerate.
Allora, girovagando tra violini, viole e violoncelli superbamente messi in mostra tra le volte dell’antico palazzo comunale e sostando estasiato di fronte alla magnificenza del Duomo e del maestoso-grande-possente-temuto-artistico e amato Torrazzo messo lì a far da palo al sentire religioso e alla devozione del popolo cremonese, scoprii che i piaceri della gola, benché peccaminosi, erano l’anticamera di quel paradiso in cui di sicuro stazionavano e continuamente venivano ammessi spiriti allegri e cuori gentili. Correvano, suppergiù, i primi anni del terzo millennio, anni ancora sufficientemente spensierati, da vivere e condividere senza porsi altro problema se non quello di mettere in sintonia tra loro i simboli di cui Cremona giustamente andava fiera, vale a dire turòon, tetass, toraz, ovviamente allineati secondo l’ordine più confacente al proprio modo di pensare e di intendere il vivere quotidiano.
In quel beato cullarsi tra fortune e illusioni, la Festa del Torrone, inventata per dare al mondo l’idea di una Cremona tutta da gustare, si affermava chiamando folle di golosi ad assaggiare l’assaggiabile, possibilmente “senza fine, senza un attimo di respiro, per sognare, per ricordare quel che abbiamo già vissuto…”, proprio come cantava la divina Mina, “Tigre” di questa dolce terra e sicuramente non per caso.
Tra un assaggio e l’altro, in modo da giustificare che non la gola ma la cultura aveva guidato i passi fin lì, l’occhio divagava alla ricerca di arte, architettura, tradizione, storia e persone. Per la storia c’era quella “Storia…” scritta da Mario Monteverdi e pubblicata nel 1955 da “La Provincia”, che attribuiva a un certo Brimonio, troiano fuggito dalla Patria distrutta, la fondazione di Brimonia, destinata nel tempo a diventare Cremona. Per l’arte e l’architettura c’era solo l’imbarazzo della scelta: prima il Duomo, del XII secolo, con quella facciata tutta marmi bianchi e rossi, il rosone immenso, l’alta loggia a due piani e un interno arricchito da pregevoli monumenti (come l’Arca dei martiri persiani, capolavoro di scultura e scrigno di fede), da opere pittoriche di maestri come Romanino (è suo l’Ecce Homo che conclude la Passione di Cristo), Giorgione, Durer (che forse soggiornò a lungo da queste parti) e tanti altri, minori ma non meno importanti; poi, il Torrazzo, emblema della città, con strutture sottostanti la torre, edificata a partire dal XIII secolo, risalenti al 754, alto centododici metri (secondo in Italia, trentesimo o trentaseiesimo in Europa), arricchito da un orologio astronomico costruito tra il 1583 e il 1588, tra i più grandi al mondo (offre un diametro di quasi oltre otto metri, uno e mezzo in più del pur celeberrimo Big Ben di Londra) e sormontato da una maestosa guglia, che potreste vedere da vicino solo dopo aver contato i 502 gradini che la separano dal suolo della piazza; infine, il Battistero (del 1167, a pianta ottagonale, sormontato da una cupola su cui svetta la statua dell’Arcangelo Gabriele), la Loggia dei Militi, il palazzo Comunale e, dentro un magnifico quadrilatero, il Teatro Ponchielli, i musei pregni di arte e di storia, un rincorrersi di vie, vicoli e strade che raccontano vicende antiche e nuove… Il tutto opportunamente impastato coi soggetti della festa: torrone, mostarda, graffioni, belle e prosperose donne, giovanotti simpatici e uomini per nulla intimoriti dal dover esibire mani villose, braccia contadine, visi abbrustoliti dal sole campestre e deretani plasmati a forma di badile (con tanto di incavo procurato, ve l’assicuro, dal classico e solitamente ben gonfio portafoglio).
Si arrivava da Brescia vantando amicizie come lasciapassare e ci si mischiava a Cremona chiedendo venia per gli eventuali disturbi che le avremmo arrecato. “Basta che paghiate quel che comprate”, diceva in dialetto stretto (intraducibile) la Marina, signora incontrastata delle bancherelle. Così era e così andò per un bel pezzo di anni. Poi, al Mario di Carpenedolo, venne in mente di inventare un gemellaggio, fondato sul torrone, tra il suo paese e Cremona, da mettere in scena dopo i fasti della festa cittadina, cioè all’inizio di dicembre, quando Carpenedolo avrebbe celebrato l’Immacolata, alla quale un magnifico santuario rendeva gloria. Allora, affabulatori temerari ipotizzarono antichi connubi (forse veri o forse solo un pretesto per replicare la festa) tra l’est della Padania Valle e il suo solido centro. Connubi che immancabilmente si sperimentavano partecipando prima alla festa di Cremona e poi a quella di Carpenedolo. Che tempi!
Ben prima di quel tempo beato e ridanciano, però, c’era la storia di quelli che, come me, il torrone lo assaggiavano una volta all’anno, ai quali – illo tempore – non sembrò vero di farne indigestione semplicemente accettando di diventare assaggiatore per un giorno della prelibata stecca bianca infarcita di mandorle e miele. L’evento andò in scena quando a un tale che tutti chiamavano Pagnuchina, di Orzinuovi, venditore eccellente di dolci tra i quali spiccava quella mezzaluna che scimmiottando la francese brioches si lasciava chiamare merendina, venne in mente di aggiungere al suo vendibile l’invenduto di una bottega cremonese che altro non sapeva fare se non torrone. Per classificare la bontà dei diversi torroni e, di conseguenza, stabilire a che prezzo venderli, Pagnuchina radunò quelli che tiravano calci al pallone nella squadra da lui puntellata (una volta così si chiamava la sponsorizzazione), che notoriamente erano golosi-curiosi, proponendo a ciascuno di assaggiare liberamente purché provvedessero seduta stante a dare un voto a ogni boccone messo in bocca.
L’esperimento, nonostante il mal di pancia rimediato da alcuni dei concorrenti, finì in gloria: Pagnuchina vendette tutti i torroni, guadagnò a sufficienza per convincersi che l’operazione doveva essere ripetuta e mise le basi per esportare la sua attività anche nel cremonese; gli assaggiatori per un giorno, io compreso, capirono che c’era del buono nell’idea di subordinare la vendita del torrone al loro giudizio e anche che di così raffinata benché improvvisata professione si sarebbe occupata la storia. Ragion per cui, da quando la festa del torrone è felicemente in scena – dall’anno duemila se la memoria non m‘inganna -, una scusa per esserci la trovo, oppure la invento.
Ed è quello che farò anche oggi, o magari domani, o comunque prima che la festa si concluda, vale a dire domenica 21 novembre.
LUCIANO COSTA