Ecco il ritratto del Partito Democratico post-elezioni politiche 2022 (volendo è estensibile ai coalizzati, vicini, affini o distanti, tutti accumunati dal titolo di perdenti): facce tristi, appetiti instabili, poltrone scomode, idee poche, simpatia zero virgola, fedeltà discutibile, libertà condizionata, democrazia dichiarata ma altalenante (vale per uno, meno per altri), virtù poche, voti in caduta, segretario in fuga, aspiranti segretari in ascesa (roba da pazzi), futuro incerto… Impietoso, nevvero? Sarà, ma che dire dopo a ver visto riunirsi dolenti i dolenti dem? “Dai, coraggio, è una batosta passeggera e domani è già un altro giorno”, ha detto il burlone romano passando dalla via delle Botteghe Oscure, residenza del fu PCI, proprio a due passi da via del Gesù, residenza dell’altrettanto fu DC. Ma sì, coraggio vecchi venditori di utopia e giaculatorie, siete andati a braccetto, avete provato a governare, siete rimasti convinti che non ci fossero altre vie oltre l’utopia degli uguali… E forse vi siete sbagliati. Infatti sulle vostre spalle, modificate e poi rimodificate con aggiunta di pensieri e ideali salvati alla bel e meglio dal disfacimento globale, vi siete ritrovati, indesiderata e temuta, la Giorgia Meloni, sorella d’Italia, gattona sorniona, tutta miele e fiele (miele per i cercatori di rivincite, fiele per i vecchi resistenti-storici-analisti-scrutatori-lettori di storia e partigiani della prima ora (nascosti sulle italiche montagne), dell’ultima ora (ben visibili nei salotti piccolo-borghesi) e dell’ora di mezzo (quel che resta degli antifascisti).
E così, affaticati cantori del centro-sinistra e untori di una sinistra pressoché invisibile, avete perso le elezioni più importanti (sono tutte importanti, ma l’ultima lo era ancor di più). E notando le perdite avete di nuovo scelto la via del pianto e della dimissione. Insomma, il pianto come purificazione, la dimissione come apertura a chissà quali novità. Però, come ha detto Bortolo di ritorno dalla sua utopica isola, “se si rilancia, se si lancia la sfida, se si recuperano le masse, se si riordina lo stato sociale, se si rimettono al centro (sic!) e in voga la tuta dell’operaio, la cravatta dell’impiegato, il pullover del manager e il cappello del datore (di lavoro e ricchezza), magari aggiungendovi anche pizzichi o, meglio, manciate di uguaglianza, libertà, fraternità, solidarietà, accoglienza, diritti, lavoro (giustamente retribuito), pensione (non da fame e rispettosa delle persone più deboli), democrazia (vera e partecipata), cultura (non di qualcuno ma di tutti), scuola (aperta coraggiosa innovativa), sport (praticato, non gridato), salute (garantita da norme chiare e sicure), sanità (di tutti e per tutti) e sostegno (chiamatelo come volte, anche reddito di cittadinanza, purché civile, vero, garantito, verificato… Ecco, se si fa tutto questo, forse si torna a vincere”. Insomma, se ho capito bene, se e poi ancora se… c’è futuro anche per i dem e per chi come loro conserva qualche buina utopia sociale, oggi in assai precarie condizioni.
In attesa che per loro il futuro incominci, se fossi uno dei perdenti mi siederei sulla sponda del fiume in attesa che transitino i resti dei facitori di un insieme che di unito ha mostrato fin qui di avere tante parole e pochi fatti. Diamogli tempo: se sono soltanto fumo svaniscono, se invece passano dal fumo all’arrosto resisteranno, almeno fin quando “crisi non voglia” e arrivi a pretendere, anche lei, la pausa di riflessione…
Come succede tra innamorati delusi, che scoprendosi reciprocamente insofferenti a camminare insieme cercando la felicità che prima c’era e che poi se n’è andata a ramengo, decidono di concedersi una pausa di riflessione, quell’anno sabbatico lungo un anno, forse due, forse cinque o venti in cui, seppur lontani, potranno annullare la distanza e mantenere ricordi telefonandosi, così, per cortesia, piacere, per sentirsi “lontani ma vicini vicini”.
fondo, come cantava Lucio Dalla, si tratta di avere pazienza, di avere il coraggio di dire all’amata “adesso no, ma tra cinque o vent’anni potremmo riprovare il gusto di riprovare a vincere e a stare insieme”. Sto delirando, lo so, ma è tutta colpa di RadioRai, che ieri tra il mezzogiorno e l’una (ora buona per ascoltare canzonette e dimenticare il panino) mi ha regalato le dolenti e intelligenti note scritte dal Piccoletto bolognese di piazza Grande, quelle che oggi, con qualche aggiustamento, potrebbero servire ai dem delusi (ma anche agli altri affini) di farsene una ragione, in attesa di tempi migliori. Non sarò io ad aggiustare la canzone, soprattutto perché se lo facessi impedirei ad altri di provare il piacere della manipolazione ad uso e consumo di chi abbia voglia e tempo per pensare che tutto scorre e tutto serve, anche la canzonetta, purché non banale. E quella cantata da Lucio Dalla (se interessa è intitolata “telefona tra vent’anni”) è tutto fuorché banale.
Dice la canzone: “Telefona tra vent’anni / io adesso non so cosa dirti, / amore non so risponderti / e non ho voglia di capirti. / Invece pensami tra vent’anni, pensami / io con la barba più bianca / e una valigia in mano / con la bici da corsa / e gli occhiali da sole / fermo in qualsiasi posto del mondo, / chi sa dove, / tra miliardi e miliardi di persone / a bocca aperta, senza parole / nel vedere una mongolfiera / che si alza piano piano / e cancella dalla memoria / tutto quanto il passato, / anche le linee della mano / mentre dall’alto un suono, / come un suono prolungato / di un pensiero che è appena nato, / si avvicina e scende giù. / Ah io sarei uno stronzo, / quello che guarda troppo la televisione! / Beh qualche volta lo sono stato, / importante è avere in mano la situazione. / Non ti preoccupare, / di tempo per cambiare ce n’è. / Così ripensami tra vent’anni, ripensami / vestito da torero, / una torta in mano / l’orecchio puntato verso il cielo / verso quel suono lontano lontano. / Ma ecco che si avvicina, / con un salto siamo nel duemila / alle porte dell’universo. / Importante è non arrivarci in fila / ma tutti quanti in modo diverso / ognuno con i suoi mezzi / magari arrivando a pezzi / su una vecchia bicicletta da corsa / con gli occhiali da sole / il cuore nella borsa. / Impara il numero a memoria / poi riscrivilo sulla pelle. / Se telefoni tra vent’anni / butta i numeri fra le stelle. / Dalle porte dell’universo / un telefono suona ogni sera / sotto un cielo di tutte le stelle / di un’inquietante primavera”.
C’è di tutto nella bella canzone: gli innamorati, l’amore che svanisce, l’appuntamento a chissà quando e dove, i vizi pantofolai e televisivi, le fughe in bicicletta, l’attesa di buone o cattive nuove, anche di quella telefonata forse destinata a far apparire un cielo finalmente rasserenato e disposto a concedere felicità agli innamorati che si ritrovano, ma anche ai menestrelli politici e politicanti sconfitti impegnati a cercare la loro rivincita. Non succederà in fretta. Quindi, Sorella d’Italia, stai serena. Fra cento giorni o un anno, magari due o cinque, ne riparleremo. Perché, se è vero che l’oggi appare roseo e certo, altrettanto vero è che “nel domani non v’è certezza”.
LUCIANO COSTA