Il dopo-elezioni non è più ristretto alla conta dei voti. Ieri si calcolavano gli spostamenti da un partito all’altro, oggi si leggono le percentuali dei votanti e scoprendo che i non-votanti sono ben più dei votanti si mettono in campo chi i malumori della gente, chi il freddo, chi la fretta e chi l’assuefazione a un rito, forse trito e ritrito ma pur sempre espressione di democrazia compiuta. “Votare è un dovere – spiegano i manuali di politica – e chi non vota lascia che altri decidano per lui”. E non è una bella prospettiva. Meglio semmai sbagliare da soli. Invece, ecco il non-voto, l’astensione, il rifiuto di compiere un gesto di responsabilità. E quando chi non vota rappresenta la maggioranza, nessun eletto potrà mai dire di essere espressione del popolo…
Come ha scritto Danilo Paolini “non è un semplice vuoto, è un’autentica voragine quella che si è aperta sotto i piedi dei partiti. Di tutti i partiti, tanto quelli usciti sconfitti dalla tornata elettorale regionale in Lazio e Lombardia, quanto quelli che hanno vinto. Questa voragine, che si chiama astensionismo, è pronta a inghiottire, al prossimo eventuale (non auspicabile, ma purtroppo nemmeno improbabile) calo di credibilità e fiducia, quel che rimane del rapporto che lega gli elettori italiani alla democrazia rappresentativa”. Domenica e lunedì l’allarme è suonato forte e chiaro: la disaffezione degli italiani verso la politica cresce ancora e si manifesta con forza drammatica in elezioni che riguardano l’amministrazione di territori prossimi ai cittadini, come le Regioni. Due sole Regioni, d’accordo, ma non due qualsiasi, perché vi risiede circa il 25% della popolazione nazionale: una è la Regione della capitale politica e amministrativa, l’altra è la Regione della capitale economica e finanziaria.
Tra Roma e Milano sono però diversi gli spunti di riflessione che suggeriti dal crollo verticale dell’affluenza alle urne. “Il primo – scrive Paolini – riguarda il rapporto ormai logoro di milioni di italiani con l’esercizio di un diritto-dovere civico come quello del voto, di fronte al quale occorre con urgenza interrogarsi sui motivi che lo generano: scoraggiamento, rifiuto della politica, scarsa considerazione per chi si propone come interprete della politica, crisi economica e di valori con accentuazione delle troppe disuguaglianze sociali ed economiche, della precarietà e insufficiente remunerazione del lavoro (quando c’è), della lontananza delle istituzioni dai bisogni reali delle persone, del malfunzionamento di alcuni servizi, a cominciare dalla sanità e dai trasporti per i pendolari…”.
Come coniugare questa disaffezione verso le Regioni con l’aumento delle loro competenze previsto e consentito dall’Autonomia differenziata, riforma fortemente voluta dall’attuale maggioranza e già in rampa di lancio? Difficile dirlo. Una risposta sensata a questa domanda esige cautela e saggezza, unici rimedi a un tessuto già consumato, che rischia di strapparsi irrimediabilmente. “Quanto alle forze politiche – sostiene il notista politico -, l’esito del voto trova un centro-destra sempre più destra-centro e sempre più Meloni-centrico. Infatti, Fdi continua ad avere il vento in poppa. Segno che la “luna di miele” con i suoi elettori non è terminata, malgrado qualche sbavatura evidente (il ripristino delle accise sui carburanti, i rapporti con gli altri Paesi fondatori della Ue, la vicenda Cospito con le accuse addirittura di contiguità alla mafia e al terrorismo nei confronti del Pd) e la difficile gestione dei rapporti interni alla maggioranza”. Risultati alla mano, il partito della fiamma riesce ancora a mobilitare un voto “di appartenenza” (il 33% raccolto nel Lazio e il 24% in Lombardia sono risultati davvero notevoli) in uno scenario di rarefazione del voto “di opinione”. “Proprio questo ruolo di “asso pigliatutto” potrebbe tuttavia rivelarsi, paradossalmente, la maggiore insidia per la presidente del Consiglio: Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, si sa, fanno molta fatica ad accettare la parte da comprimari che gli elettori stanno affidando loro”. Ne è prova o riprova la sparata del Cavaliere di Arcore sul leader ucraino Zelensky, che tanto imbarazzo ha provocato a Palazzo Chigi e alla Farnesina, dove pure siede il numero due di Forza Italia Antonio Tajani.
In area centro-sinistra, invece, continua la commedia degli equivoci: le alleanze differenziate, con Azione-Iv nel Lazio e con il M5s in Lombardia, non hanno fugato le ombre sul futuro di un Pd che sembra ancora in stato confusionale dopo la sconfitta delle Politiche e alle prese con una macchinosa fase congressuale che dovrebbe ridefinirne una buona volta l’identità appannata. Ma chiunque sarà il prossimo segretario dem, pur ripartendo dalla sostanziale tenuta registrata, dovrà impegnarsi per chiarire la sostanza dei rapporti con i due potenziali (ma allo stato incompatibili tra loro) alleati. Nel frattempo, il non-voto diventato voto se la gode. All’orizzonte ci sono già altre regioni, altre città, altri paesi da conquistare. In fondo, basta un voto in più…
LUCIANO COSTA