“Merito nostro, merito mio, senza di noi la riforma sarebbe stata un niente… perché loro pensavano a tutt’altro…”. Al gran ballo delle vanterie, chi più ne ha più ne mette. Ma non è detto che corrispondano necessariamente al vero. Sulla difficile-ostica-impervia-necessaria riforma della Giustizia, per esempio, il quadro messo in mostra è stato addirittura desolante. A destra s’udivano le grida dei delusi, a sinistra quelle dei (più o meno) soddisfatti, al centro quelle degli accomodanti. E nell’assise in cui si doveva decidere, prima che il Capo (Mario Draghi) dicesse “finitela, comportatevi da ministri della Repubblica Italiana e non di quella delle banane”, la crisi di Governo (un mostro devastante nella situazione che stiamo vivendo) ha bussato più volte alla porta. Quella crisi è stata annullata, ma restano i cocci, che sarà necessario rimuovere se si vuole procedere. La riforma madre di tutte le riforme (quella della Giustizia, alla quale negli anni hanno messo mano illustri giuristi, politici eccellenti, pensosi difensori delle ragioni della politica – a uno di questi, che di nome faceva Mino e di cognome Martinazzoli, venne un giorno da dire che sarebbe stato un trionfo se solo avesse avuto la possibilità di cambiare almeno la logica dei formati delle buste in uso sul pianeta Giustizia – tutti infervorati ma tutti rimandati indietro, chi più chi meno, a mani vuote), tra oggi e domani conoscerà il suo destino. Conosceremo allora il suo valore e anche la misura delle limature imposte all’impalcatura iniziale: rimandi, rinvii, prescrizione (per chi, per come, per quando…), peso e contro-peso dei giudici, ricorsi ammessi ammissibili ipotizzabili, durata dei processi, sicurezza della pena e modo di scontarla… Di sicuro, ne vedremo e sentiremo delle belle. Perché è inimmaginabile che i furori verbali di destra sinistra centro e pianeti collegati trovino quiete nel bel mezzo di una disputa che i potenti mezzi della comunicazione son pronti a usare come dimostrazione del loro potere di commento e persuasione.
In questo modo la politica (salvo rare eccezioni, che ci sono sebbene nascoste) tornerà a essere il caravanserraglio di sempre: luogo di grida e di sgambetti in cui, per realizzare il suo fine, che dovrebbe assomigliare a quel vivere bene strombazzato ed esibito, si ergerà al di sopra di tutto e di tutti la retorica. “Eppure – scrive Giovanni Tridente – l’esperienza dimostra che non sempre nella polis si persegue questo obiettivo, e una delle evidenze più immediate è possibile trarla dall’esperienza di litigiosità a cui assistiamo in rete. Se è vero che comunichiamo, e persuadiamo, per provocare un cambiamento nel comportamento di coloro con i quali entriamo in conversazione, sicuramente potremmo dire che il litigio, e il litigio online, è una forma deviata di persuasione. Sembra più simile ad un atto di forza, seppur non fisico, per provare a prevalere sugli altri”.
E’ l’opposto della Giustizia, che equipara e mai prevarica. Invece, nell’arena comunicativa emergono attori che partono da punti di vista differenti, sebbene in linea generale la pensino allo stesso modo. Così, dice l’esperto “immettere nella conversazione uno spirito litigioso equivale sostanzialmente a voler convincere l’altro con la forza, e questo accade quando si fa a meno del vero spirito dell’argomentazione, che è quello di fornire prove a sostegno delle proprie tesi”. Stando così le cose “il litigio avviene proprio perché abbiamo innata questa capacità di persuasione (voler convincere l’altro della “bontà” delle nostre idee) ma diamo priorità al risultato piuttosto che al percorso per arrivarci”, dimenticando facilmente che lo spirito del dibattito argomentativo è proprio quello di non mettere mai il punto fine alla discussione, che invece deve essere alimentata continuamente con “nuovi pareri, punti di vista e stimoli, in un processo contro-argomentativo costante che è fruttuoso per ciascuno dei disputanti”.
Nel bel mezzo del libro scritto dal filosofo e saggista Bruno Mastroianni (La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico) ho scoperto una domanda – come è possibile dissentire in una conversazione, generare un dibattito che possa essere veramente persuasivo per gli interlocutori e l’uditorio, senza cadere nella deviazione del litigio? – apparentemente senza risposta immediata, ma aperta a tante risposte meditate. Riferendosi alla disputa felice, assodato che “occorrono delle competenze di base per essere comunicativamente efficaci in qualunque situazione ci si presenti, e che nel mondo in cui siamo immersi ciò si traduce con ragionamenti brevi e incisivi, pieni di significato ed espressivi” l’autore dice che “la disputa felice punta a raggiungere il massimo risultato nella dinamica dibattimentale tra relazione (rapporto tra i disputanti) e contenuto (il merito della questione). Siamo quindi di fronte a discussioni comunque vivaci su determinati argomenti, ma l’aggettivo felice non va inteso in accezione buonista o cortese quanto nell’ottica di una contesa che dà soddisfazione e migliora la vita dei disputanti”. Se ho ben capito il principio guida è quello di “mantenere l’attenzione, le energie e la concentrazione sui temi e sugli argomenti in oggetto, senza andare a rompere la relazione tra i due disputanti proprio per farsi nutrire dalla differenza che ne emerge”.
In un altro libro (Litigando si impara. Disinnescare l’odio con la disputa felice in tempi di crisi) lo stesso Mastroianni usa le dita della mano per fornire una lezione utile e sorprendente. Partendo dal detto mai consunto secondo il quale la disputa felice è un qualcosa a portata di mano che chiunque può mettere in atto, il filosofo spiega che “il mignolo richiama l’umiltà, il valore del limite, per dire che siamo in grado di sostenere senza litigare solo quel poco che siamo e che sappiamo; l’anulare, il dito della fede nuziale, richiama il legame, quindi il valore della fiducia da non disperdere mentre si dissente, consapevoli che bisogna curare anzitutto la relazione tra le persone; il medio richiama invece la necessità di rifiutare l’aggressione, disinnescando gli insulti e le provocazioni per restare sull’argomento di contesa; l’indice è il dito che sceglie su cosa puntare l’attenzione e quindi è strettamente legato all’argomento, purché sia oggettivo, concreto, rilevante e consistente; infine, il pollice, il dito del like sui social, che però è veramente valorizzato quando nella disputa è orientato verso sé stessi, come forma di autoironia, ossia capacità di vivere le cose con distacco senza prendere troppo sul serio, in fin dei conti, le proprie e le altrui opinioni”.
Se i vocianti che si sono accaniti attorno alla riforma della Giustizia avessero letto quel che il filosofo Mastroianni ha messo nei due libri citati, di sicuro avrebbero abbassato la voce e fatto spazio a ragionamenti costruttivi. Purtroppo, troppi di coloro che gridano non conoscono la medicina dei libri. Peccato. In ogni caso, oggi e domani sapremo di quale Giustizia si alimenteranno i giorni a venire. Che il buon Dio ce la mandi buona!
LUCIANO COSTA