“Voci dal sen fuggite”, nel senso di bisbigli fuorusciti dalle segrete stanze dei partiti, dicono, a seconda delle interpretazioni giornalistiche, che dopo la vittoria della destra alle lezioni di domenica scorsa tutto procede a meraviglia, o forse solo nella normalità, oppure tra alti e bassi, anche tra liti e incomprensioni. Nulla di nuovo. Succede, è successo, succederà, perché nel bene e nel male l’italico popolo si trastulla tra il normale, il peggio, il meno peggio, il tutto va bene e il si stava meglio quando si stava peggio. Così Giorgia Meloni, la vincitrice assoluta della tornata elettorale, gongola-ammicca-sorride-aggira-rientra-incontrta-fugge-tesse-lima-abbraccia-stupisce-prova e riprova la parte che non appena riceverà l’incarico, dovrà recitare sul palco scenico della Presidenza del Consiglio, che i voti presi le assicurano, salvo improvvise impennate contrarie da parte dei suoi alleati. Nell’euforia generale il meno euforico è Salvini, capo di una Lega maltrattata non poco dagli elettori: vuole la luna (il Ministero degli interni, che diamine), ma dovrà accontentarsi e quindi accomodarsi, se tutto va bene, a zappare nel campo dell’agricoltura (il Ministero dell’agricoltura in questo senso gli andrebbe a pennello). Si presenta tra il beato e il beoto il capo di Forza Italia, Silvio Berlusconi, senatore rientrante, ago della bilancia, garante dell’unità del centro destra, del suo europeismo e atlantismo, del suo stare alla larga dal russo ex amico e vicino all’ucraino, che ne ha proprio bisogno se non vuole essere soffocato dal folle zar. Dopo aver salvato capra e cavoli, una allevata nel tavoliere e gli altri raccolti tra sud e dintorni, arzillo e appagato, c’è e si vede Giuseppe Conte, nuova stella dei Pentastellati, orfani del Grillo strombazzante ma già a metà strada nella corsa che porta a una sua nuova collocazione: di là dal centro, tra gli alberi che stanno a sinistra e che sullo sfondo virano “o di qua o di là, dove non si sa”. E’ invece tuttora mesto e pesto Enrico Letta, segretario di un Pd sotto il venti per cento e ancor più in basso in fatto di adesioni all’dea di unità necessaria per andare oltre la tempesta. In attesa di non si sa quali nuove, lui è dimissionario, si annuncia un congresso forse storico o forse solo lamentoso, crescono i canditati alla scomoda poltrona, però va tutto come deve andare: pezze a coprire le vergogne e parole per dire “ci siamo” e saremo opposizione seria e dura. Più o meno illusi di esserci o non esserci restano Calenda e Renzi: bastonati e quindi non considerati secondo le attese, ma ancora sicuri di avere un futuro, “qui o là non si sa”. Il resto dei sopravvissuti al tornado elettorale, si sta freneticamente arrotolando in cerca di rifugio.
A tutti costoro – vincitori, quasi vincitori, rimandati, vinti, bocciati – consiglio di leggere e rileggere l’appello che il cardinale Matteo Zuppi, a nome dei vescovi italiani, ha loro inviato. Dice: “L’Italia ha bisogno dell’impegno di ciascuno, di responsabilità e di partecipazione. E se nell’appello del Consiglio Episcopale Permanente, diffuso alla vigilia delle elezioni, abbiamo sottolineato quanto sia importante essere partecipi del futuro del Paese, adesso, purtroppo, dobbiamo registrare con preoccupazione il crescente astensionismo, che ha caratterizzato questa tornata elettorale, raggiungendo livelli mai visti in passato. È il sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato. Per questo, rinnoviamo con ancora maggiore convinzione l’invito a “essere protagonisti del futuro”, nella consapevolezza che sia necessario ricostruire un tessuto di relazioni umane, di cui anche la politica non può fare a meno. Agli eletti chiediamo di svolgere il loro mandato come “un’alta responsabilità”, al servizio di tutti, a cominciare dai più deboli e meno garantiti. Come abbiamo ricordato nell’appello, “l’agenda dei problemi del nostro Paese è fitta: le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, la protezione degli anziani, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, l’accoglienza, la tutela, la promozione e l’integrazione dei migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”. Sono alcune delle sfide che il Paese è chiamato ad affrontare fin da subito. Senza dimenticare che la guerra in corso e le sue pesanti conseguenze richiedono un impegno di tutti e in piena sintonia con l’Europa. La Chiesa, come già ribadito, “continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità”. Da parte sua, nel rispetto delle dinamiche democratiche e nella distinzione dei ruoli, non farà mancare il proprio contributo per la promozione di una società più giusta e inclusiva”.
Per il resto, i giorni che ci separano dal 13 ottobre, data di convocazione del nuovo Parlamento, dovrebbero servire per rendere chiare anche le intenzioni che per adesso sembrano tendenti al grigio. Lo chiede il Paese e lo pretende il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che come suo costume cerca e pretende “un’interlocuzione serena e rispettosa dei ruoli”. D’altronde, negli otto anni di permanenza al Colle Sergio Mattarella si è dimostrato uomo dalle lunghe ponderazioni e delle velocissime deliberazioni. Lo scenario restituito dal voto di domenica, ampiamente nelle attese, ha detto che si tratta solo ora solo di fare in modo che ci sia un governo nella pienezza dei suoi poteri nel primo giorno utile. Nella legislatura complicatissima appena conclusasi anzitempo Mattarella ha sempre operato da facilitatore nella formazione di una maggioranza, e non mancherà di farlo anche stavolta. Tutto sommato, anzi, quest’inizio di legislatura si presenta in discesa, al confronto con quella del 2018, essendo emersa una maggioranza chiara nelle Camere già dall’esito del voto.
Questo dovrebbe velocizzare già il primo degli adempimenti preliminari, cioè l’elezione dei presidenti delle due Camere, convocate per il 13 di ottobre. Nel giro di qualche altro giorno si dovrebbero avere anche le nomine dei capigruppo e a quel punto si potrà andare alle consultazioni, che si preannunciano velocissime allo scopo di mettere al più presto al lavoro il nuovo esecutivo sulla delicatissima partita della legge di Bilancio. Una scelta che potrebbe contribuire ad accelerare i tempi, da parte della coalizione vincente, sarebbe quella di presentarsi in delegazione unitaria superando eventuali divergenze, avendo cura, soprattutto, di ufficializzare al capo dello Stato – come detto in campagna elettorale – la comune indicazione sulla leader della principale formazione.
Nel frattempo, però, ci sarà da inviare a Bruxelles il Documento Programmatico di Bilancio (Dpb) entro la data del 15 ottobre prevista dal Regolamento Ue del 2013 e in questo senso attraverso Guido Crosetto dal partito di maggioranza relativa, Fdi, è arrivata la disponibilità a interloquire con Mario Draghi perché porti avanti la pratica “scottante”, nel quadro di un ordinato passaggio di consegne fortemente auspicato anche dal Quirinale. In questo crono-programma a tappe forzate il testimone potrebbe passare a Giorgia Meloni già prima della fine di ottobre, a seguito della doppia fiducia delle Camere, cosicché il nuovo governo avrebbe poi due mesi di tempo per evitare la iattura dell’esercizio provvisorio di bilancio.
Di mezzo però c’è il passaggio delicato della lista dei ministri. Mattarella cercherà, anche su questo, un’interlocuzione serena e rispettosa dei ruoli. Pesa però il precedente del 2018 della ferma bocciatura di Paolo Savona all’Economia nel primo tentativo di Giuseppe Conte, poi recuperato agli Affari europei. Il ministro dell’Economia per ottenere la “controfirma” del capo dello Stato dovrà quindi garantire di operare nell’orizzonte dell’euro, con in più, questa volta, la vitale partita del Pnrr da onorare, sulla quale il governo entrante dovrà garantire un’interlocuzione costruttiva con la Ue.
Gli altri ministeri su cui il Colle dirà la sua – quale garante della Costituzione e del rispetto dei trattati – saranno soprattutto la Difesa (alla luce del conflitto in Ucraina, da presidente del Consiglio supremo di Difesa), gli Esteri, l’Interno (in relazione particolarmente al tema dei migranti), e infine la Giustizia, nel ruolo di presidente del Csm e di garante dell’equilibrio fra poteri dello Stato.
LUCIANO COSTA