Poveri cinghiali o poveri umani?

Se non fosse che è tutto da ridere ci sarebbe di che preoccuparsi. Invece, rido. Anzi, sghignazzo. Parlare infatti di qualcuno che annaspa per difendersi o arranca per accusare, non è un bel esercizio di stile. Purtroppo succede. Succede che il fu Presidente della Provincia di Brescia, il comandante della Polizia Provinciale, alcuni agenti, funzionari del settore caccia, responsabili del dell’ambito territoriale di caccia e direttori dell’ufficio territoriale della Regione, finiscano sulla graticola degli inquirenti perché accusati di inquinamento ambientale, peculato, uccisione ingiustificata di animali (traducibile in animalicidio, almeno secondi alcuni) e macellazione abusiva.

Succede che vada in scena il processo. Di conseguenza ecco i giudici schierati, gli imputati alla sbarra, gli avvocati sugli scranni, gli accusatori sugli scudi per gridare, appunto, al delitto di animalicidio. Non so a voi, ma a me questo mettere alla sbarra qualcuno per aver provveduto a far pulizia di troppi cinghiali in circolazione e massimamente votati a devastare il territorio, sulla base di una presunta mancanza di autorizzazione da parte di un ente superiore che sta a Roma e che delle devastazioni cinghialesche che si consumano a Brescia non sa una benemerita acca, sembra proprio la raffigurazione di un atto (forse) dovuto o (forse) soltanto preteso dai due o ventidue gruppi che si autoproclamano unici inattaccabili e implacabili difensori di animali – feroci, dannosi, innocui, mansueti, arrabbiati, amici o nemici che dir si voglia -, cantori di erbe, arbusti, piante, rami, ortiche, gramigna, papaveri, bacche, funghi, stelle, stallatico, liquami e qualunque altra cosa che ai loro occhi onori la natura.

Capisco i giudici costretti a procedere per rispetto della norma; non capisco la serie di arzigogoli usati dalle associazioni animaliste per trasformare il procedimento in un patibolo su cui immolare i funzionari che secondo loro “hanno operato senza alcun scrupolo, incuranti del fatto che le loro azioni avrebbero comportato l’uccisione di migliaia di animali in violazione delle tutele previste e utilizzati dai cacciatori per il proprio esclusivo divertimento e consumo”. Capisco la necessità di dare trasparenza agli atti; non capisco però perché tale trasparenza debba riguardare una parte e non l’altra.

E ancora: capisco la necessità di far sapere alla gente quel che succede nelle aule in cui si amministra giustizia; non capisco, invece, perché quel che al massimo meriterebbe il titolo su una colonna, grazie al vociare e al pretendere degli arrabbiati difensori di altrettanto arrabbiati cinghiali, ne guadagna uno di apertura (esteso su tutta la pagina e sostenuto da abbondanti righe di cronaca).

Semplicemente non capisco, invece, la soddisfazione delle associazioni animaliste (Lav, Legambiente, Wwf, Lac) per essere state ammesse come parti civili nel procedimento giudiziario. Mi chiedo: quali e quanti vantaggi porta essere “parti civili” in un procedimento che si occupa di “parti animali”? Non lo so e non lo voglio sapere. Però, quando a fine gennaio 2021 andrà in scena la nuova udienza del processo dei cinghiali, niente mi impedirà di essere lì per tentare di capire quel che adesso non ho capito. Anche per vedere l’effetto che fa assistere alle tribolazioni dei giudici costretti a dover comparare il danno causato dai cinghiali agli umani e quello causato dagli umani ai cinghiali. Non vorrei essere nei panni dei giudici, ancor meno in quelli dei cinghiali.

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