Ripropongo qui quel che ho scritto e che Bresciaoggi ha pubblicato l’altro ieri. Lo faccio perché sollecitato da alcuni lettori rimasti orfani del giornale, ma anche per lasciare una traccia a cui riferirsi nel caso si voglia ragionare, riflettere e discutere sul mestiere del prete. Anche per dire a chi ha definito il pezzo pubblicato da Bresciaoggi una vera e propria invasione di campo, che la via migliore per accorciare le distanze tra la gente e il prete e tra la chiesa stessa e la gente, è dirsi tutto, è condividere pensieri e preoccupazioni, è mettere in chiaro che non esistono privilegi e che, o si cammina insieme – preti e popolo -, o le chiese diventeranno deserto. Ho scritto…
Le statistiche, impietose, dicono che gli aspiranti al sacerdozio sono sempre di meno, che le vocazioni religiose sono in crisi, che le chiese sono vuote o in fase di svuotamento, che quasi la metà delle parrocchie distribuite sul territorio della diocesi bresciana non può più contare sulla presenza stabile di almeno un sacerdote… Anche che dovremo progressivamente abituarci, in caso di bisogno, a rincorrere il prete piuttosto che restare comodi ad aspettare che lui venga verso di noi. Quattro giovani che al termine del lungo cammino di preparazione chiedono al vescovo di essere ammessi al sacerdozio ministeriale, benché pochi (almeno rispetto a tempi in cui il numero degli aspiranti era sistematicamente a due cifre) sono comunque il segno di una continuità vocazionale che ancora non conosce drastiche interruzioni. Quattro giovani pronti a pronunciare il loro “sì” definitivo (si chiamano don Michele Rinaldi, don Simone Toninelli, don Attilio Vescovi e don Filippo Zacchi, della diocesi di Brescia, e lo faranno oggi nella Cattedrale) meritano di essere compresi e accompagnati nel difficile mestiere (fare il prete oggi è davvero un mestiere molto difficile) che li attende. Però, sarà il caso di farlo senza aggiungervi sospiri e senza concedere spazio alle facili emozioni. Meglio un sano realismo, magari anche spigoloso, però sincero e soprattutto capace di aiutare i giovani preti a essere davvero quei preti di Dio, portatori di misericordia piuttosto che di stantie promesse di cieli spalancati…
Se questo è il quadro di riferimento, ai quattro diaconi che oggi ricevono la consacrazione sacerdotale converrà allora ricordare che non saranno privilegiati e neppure considerati al di sopra di qualsiasi altro cercatore di futuro. Servirà anche dire loro che domani, benché già con le mani consacrate e il titolo di prete appiccicato addosso, saranno considerati intrusi, niente più che illusi di possedere la parola che salva, redime e cambia il mondo semplicemente con la forza di un Pater noster (la preghiera che in sé racchiude l’essere e il divenire dell’umanità), aggrappandosi alla Fede che sposta le montagne, cibandosi della Speranza che tutto riveste di nuovo, usando e consumando la Carità come antidoto all’egoismo e allo star bene da soli. I quattro nuovi preti, dopo la festa per la celebrazione della Prima Messa e la serie infinita di abbracci, sorrisi e consigli portata in dono da mamme papà nonni zie parenti e amici, dietro l’angolo della chiesa parrocchiale che li ha visti crescere e poi incamminarsi verso l’altare, camminando sulle strade del mondo troveranno chiese vuote o in fase di svuotamento… E sarà in quelle chiese vuote o in fase di svuotamento che dovranno mostrare di che pasta son fatti i preti dell’anno 2021.
Conosco i quattro diaconi e so che ognuno porta con sé una storia importante. Attilio studiava e già sognava di diventare archeologo, scopritore di mondi sommersi e sconosciuti. Ma mentre già s’impegnava per dare un volto e un nome alla città riportata alla luce, si trovò a fare i conti con la voglia di sostituire alle pietre e ai cocci di chissà quale passata civiltà case e palazzi da abitare e riempire con parole piene di amore, di beatitudine, di certezze, di giustizia e di giusti chiamati ad attuarla, di Vangelo da sminuzzare così che a ciascuno toccasse la sua parte, di misericordia da seminare sulle strade del mondo. Simone, senza neppure aver chiaro quel che intendeva cercare e realizzare, con il diploma conseguito al liceo pedagogico e un’esperienza di lavoro in fabbrica, disse ai suoi che voleva farsi prete e per questo abbandonava il paese e sceglieva di vivere il seminario per imparare a farlo e a testimoniarlo. Filippo, benché intenzionato a vivere il suo tempo suonando e dispensando buona musica, dopo aver inciampato nel mistero della vocazione al sacerdozio, mise da parte (ma per fortuna non del tutto) spartiti, strumenti e note e si caricò di tutto il sapere che lo avrebbe portato dritto al sacerdozio ministeriale. Michele, pur avendo la laurea in lettere già incorniciata e pronta a dimostrare il suo valore di insegnante, fortificato da tutto ciò che aveva appreso tra casa, chiesa e oratorio si incamminò felice verso gli anni di teologia che gli avrebbero spalancato le porte del sacerdozio ministeriale.
Conosco questi quattro diaconi che salgono l’altare per ricevere l’ordinazione presbiterale e so che sognano paesi in cui seminare tutto quel che hanno accumulato nei severi anni di preparazione, che immaginano felicissime simbiosi tra loro e quanti vorranno ascoltarli mentre si arrabatteranno per spiegare l’essenza del Vangelo, che vorrebbero diventare subito parte della comunità, che sanno di essere preti mandati in strada a raccogliere le miserie e le disperazioni della gente, che però hanno nelle mani consacrate la risorsa necessaria per rendere migliore l’esistenza di tanti sconosciuti ma fratelli. Toccherà proprio a loro quattro “accogliere, stringere al cuore, prestare ascolto, colmare la solitudine, consolare gli affanni, donare gioia”, ripetere ogni giorno che “la tenerezza salverà il mondo” e dire a ciascun fedele riunito in chiesa o anche in attesa fuori dalla chiesa, magari ad alta voce, che “non puoi spezzare il Pane della domenica se il tuo cuore è chiuso ai fratelli; non puoi mangiare questo Pane se non dai il pane all’affamato; non puoi condividere questo Pane se non condividi le sofferenze di chi è nel bisogno”. Sempre a loro toccherà costruire nuove e durature relazioni umane, aumentare le occasioni per “fare comunione”, dare corpo alla “condivisione” dei beni “secondo il bisogno di ciascuno”. Per farlo dovranno, insieme a papa Francesco, trovare nuove forme e nuovi modi per “parlare di fede, per annunciare la fede, addirittura per celebrare la fede là dove gli uomini si incontrano”; dovranno anche “perdere certezze, abbandonare rendite di posizione, andare verso i credenti e non aspettare che siano loro a venire da loro…”.
Grande missione quella del prete, ma anche missione altrettanto pericolosa, difficile e spesso incompresa. I quattro nuovi sacerdoti si affacciano alla ribalta accompagnati dall’insieme delle attese, degli auspici e dei desideri dell’intera Diocesi. Su di loro confluiranno le sempre nuove e attuali domande: che preti saranno? saranno santi? sapranno stare con i ragazzi e allo stesso tempo vicini alla gente? Domande alle quali non potranno rispondere se lasciati soli. Potranno invece onorare quelle domande se al loro fianco ci sarà un’autentica comunità di persone disposta a camminare con loro.
LUCIANO COSTA