Cantava così Giorgio Gaber nel suo ultimo album: “La parola io/questo dolce monosillabo innocente/è fatale che diventi dilagante/nella logica del mondo occidentale/forse è l’ultimo peccato originale”. E noi, abitanti di un mondo sempre più complicato e sempre più bersagliato dai meccanismi digitali, dopo vent’anni rischiamo di diventare ancora di più isolati, lontani e indifferenti gli uni degli altri. In questo quadro i più esposti sono gli adolescenti che, non avendo la memoria di un mondo diverso, hanno meno anticorpi. Soprattutto dopo l’esperienza traumatica del lock-down che li ha lasciati ancora più disorientati.
Lo stato del mondo giovanile dovrebbe allarmarci. Sembra incredibile, ma siamo davanti a una generazione che fatica a desiderare, pur avendone la possibilità. A prevalere è un’ansia profonda che provoca una paralisi che si sviluppa non per scarsità ma per eccesso di possibilità. Fino a rendere incapaci di accogliere, affezionarsi, aderire, decidere. In questo contesto, fa notizia l’annuncio di Apple che, rispondendo all’ipotesi del metaverso su cui sta lavorando Zuckerberg, ha lanciato sul mercato il suo nuovo visore. Un dispositivo tecnologicamente sofisticatissimo, simile a una maschera da sub, che permetterà di immergersi nel fantastico mondo della realtà aumentata dove, con le sembianze dell’avatar scelto, sarà possibile interagire a distanza e provare le esperienze più stupefacenti. Un mondo surrealista, che neppure il grande Dalì avrebbe potuto immaginare, dove sarà impossibile distinguere ciò che è vero e ciò che è falso perché non ci sarà più la realtà nella sua consistenza, ma solo una parvenza di essa.
Il nuovo visore – che costa ancora molto e che impiegherà qualche anno per sfondare sul mercato – ha una grande potenza commerciale e costituisce di fatto il compimento del lungo percorso che porta l’io a un isolamento assoluto compensato solo dalle pseudo relazioni virtuali e dal riconoscimento dei cultori del digitale assoluto. Con la sua maschera in testa, l’Io avrà la sensazione di potersi costruire il mondo a proprio piacimento, illudendosi di essere da solo mentre si renderà ancora più dipendente. Con una pericolosissima dissociazione nei confronti della realtà.
È questa la strada che vogliamo seguire?
I gravissimi fatti di cronaca di questi giorni dovrebbero esserci di monito: un gruppo di ragazzi normalissimi che hanno pensato di risolvere il loro problema esistenziale riprendendo col cellulare sfide sempre più estreme da mettere su tik tok. Da cui estraevano denaro vero. Imprigionati nell’eccitazione dell’eccesso fino al punto da perdere il senso stesso della realtà e schiantarsi con un Suv da super ricchi contro una mamma e i suoi bambini.
Dipendenza e dissociazione, una sindrome che intacca anche noi adulti, quando non riusciamo più a percepire la gravità di quanto ci accade attorno: la disattenzione con cui molti medi hanno trattato il drammatico affondamento della barca inabissatasi nel Mediterraneo con più di 600 persone uomini, donne, bambini – e la conseguente indifferenza con cui la drammatica notizia è stata recepita dall’opinione pubblica – lascia attoniti.
Il rischio di costruire una società di monadi ingabbiate nei propri monologhi e dominate da centri di potere sempre più invisibili è grande. Non si tratta di demonizzare il digitale, che permette di fare cose meravigliose in tanti campi. Ma di ricordare che, come tutte le tecnologie, anche il digitale porta il suo veleno. Nel secolo scorso, quando abbiamo introdotto l’automobile, ci si è resi conto che si trattava di un mezzo che poteva essere mortale e pericoloso. Così lo abbiamo disciplinato (non prima dei 18 anni, con la patente) e introdotto regole e controlli (il codice della strada con possibilità di contravvenzione). Un antidoto che non funziona perfettamente, ma almeno riduce gli effetti più deteriori.
Come l’ambiente stradale così anche quello digitale ha bisogno di limiti e regolazioni. Più efficaci di quelli che abbiamo introdotto fino ad oggi. Il pericolo più grande per l’io (e di conseguenza per la società) è quello rinchiudersi nel carcere di se stesso. Diventando schiavo del proprio fantasma delirante. Accontentandosi del rispecchiamento di un altro che, di fatto, non esiste. Prendersi cura dei giovani significa prima di tutto educarli a vivere in un mondo che rischia questa involuzione. E poi significa lavorare per introdurre condizioni istituzionali per permettere loro di crescere liberi nel mondo digitale. Contrastando, se necessario, anche grandi interessi economici.
L’arrivo del rivoluzionario visore apre una fase nuova, un po’ come era stato con il cinema, la televisione, lo smart phone. Meglio domandarsi sin d’ora chi e come potrà usarlo. Per evitare le deriva pericolose della dissociazione e della dipendenza. Facciamolo adesso. Domani sarà già tardi.
MAURO MAGATTI