Amarissima vicenda: pagine di cronaca che raccontano i giorni della pandemia senza veli col solo intento di scoprire se e come non tutto sia stato fatto, da chi poteva farlo, per impedire che i morti ampliassero giorno dopo giorno il conteggio dei lutti e dessero segni spaventosi ai grafici approntati per rendere anche visivamente dove il morbo ci stava portando; immagini che non avremmo mai voluto vedere (quella fila di camion militari carichi di bare che attraversava la città di Bergamo per raggiungere cimiteri e centri di cremazione, ricordate?); dolore e stupore che rompevano la quiete e che ovunque gettavano scompiglio; proteste davanti a comuni, prefetture, tribunali, con gente che chiedeva verità e accusava di inefficienza il sistema; ore televisive e mediatiche per fare il punto sella situazione, per rincuorare malati e dubbiosi, per far sapere che c’era chi si occupava e preoccupava della gente…
Però, in quel sistema incrociato di notizie e provvedimenti, qualcosa non andava, lasciava margini irrisolti, sollevava dubbi e perplessità, sollecitava risposte che tardavano ad arrivare… Poi le inchieste, i giudici che chiedevano lumi, la gente che pretendeva verità, il sistema che assicurava dicendo “andrà tutto bene, nessuno sarà lasciato indietro” e la gente che continuava a fare i conti con la morte… Ora i tre anni di Covid sono racchiusi nelle mille e mille pagine in cui i giudici del tribunale di Bergamo hanno scritto la storia della pandemia mettendo accanto a ogni evento responsabilità, responsabili e ritardi causati da un sistema che tutto prevedeva meno che si potesse e si dovesse fare di più e meglio…
Il risultato del lavoro svolto mette adesso in fila i nomi di indagati eccellenti (ci sono l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana (con l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera) e ancora il presidente dell’Istituto superiore della sanità Silvio Brusaferro, il presidente del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli, l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico nella prima fase dell’emergenza…) e capi d’accusa (epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio…) che scuotono l’intero sistema sanitario e politico. La resa dei conti sul Covid, a tre anni dall’inizio della pandemia, è in scena negli uffici della Procura di Bergamo, nel cuore della città simbolo del virus coi suoi morti (3mila soltanto in quella primavera, per stare ai numeri accertati) e la fila di bare sui camion dell’esercito che nessuno può dimenticare.
È da lì che sono partite le notifiche degli avvisi, anche quelle indirizzate per competenza al Tribunale dei ministri. «Non un atto di accusa» si affrettano a precisare dalla Procura con una nota, ricordando l’attività «oltremodo complessa» condotta «sotto molteplici aspetti e che ha comportato altresì valutazioni delicate in tema di configurabilità dei reati ipotizzati, di competenza territoriale, di sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità». Seguono le dichiarazioni in difesa dell’operato. “Sono tranquillo di fronte ai cittadini italiani per aver operato con il massimo impegno e con pieno senso di responsabilità durante uno dei momenti più duri vissuti dalla nostra Repubblica” ha scritto l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte; “sono molto sereno e sicuro di aver sempre agito con disciplina ed onore nell’esclusivo interesse del Paese” ha ribadito l’ex Ministro della sanità Roberto Speranza”. Dai familiari delle vittime nessuna dichiarazione, solo la certezza di vivere “uno giorno storico, in cui si riscrive la storia della strage bergamasca e lombarda, la storia delle nostre famiglie, delle responsabilità che hanno portato alle nostre perdite; la storia di un’Italia che ha dimenticato quanto accaduto nella primavera 2020, non a causa del Covid-19, ma per delle precise decisioni o mancate decisioni”.
Tre, in sostanza, i filoni dell’indagine che si è conclusa: la repentina chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano, la mancata “zona rossa” in Val Seriana e l’assenza di un piano pandemico aggiornato per contrastare il rischio pandemia lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ognuno dei tre filoni racchiude storia e storie diverse, tutti insieme dicono che “qualcosa non è stato fatto mentre si poteva fare, che qualcosa non è stato fatto bene quando si doveva operare al meglio, anche che era forse possibile agire diversamente… Come nel caso riferito al mancato aggiornamento del piano pandemico, che evidenzia le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie nazionali. Quel piano, infatti, avrebbe dovuto entrare in azione dopo l’allerta lanciato dalla Oms il 5 gennaio 2020 sul nuovo coronavirus, con l’acquisto massiccio di dispositivi di protezione individuale per esempio, e un monitoraggio attento delle malattie polmonari confrontate con gli anni precedenti. Invece, dicono gli atti dell’inchiesta, ciò non accadde mai e, anzi, si tentò di mascherare facendo sparire e poi provando addirittura a cambiare un documento di accusa al nostro Paese firmato dal funzionario dell’Oms Francesco Zambon, che dopo quei fatti si licenziò.
In attesa del processo emerge la solita domanda: riusciranno i giudici a fare chiarezza, a scrivere pagine di verità, a emettere una giusta sentenza? Sempre in attesa di processo e sentenza, c’è anche chi sostiene l’impossibilità di giudicare l’imponderabile, cioè un morbo che improvvisamente si prese gioco del sistema sanitario e diffuse il suo funesto potere tra gente impaurita e incapace di opporsi da sola a quel tragico evento… In attesa, resta molto su cui riflettere; soprattutto, resta molto da fare per impedire che la storia si ripeta.
LUCIANO COSTA