Siamo appesi a un filo, come panni stesi al sole, come rondini stanche, come ragnatela tessuta nella notte, come anime in cerca di cielo, come uomini-donne-persone felici di essere ma impossibilitati a sapere se e come quell’esistere durerà, però convinti che il filo che sorregge non può improvvisamente spezzarsi mettendo la parola fine al divenire ma soltanto logorarsi per poi dissolversi nel bosco sottostante… Come è accaduto l’altro ieri sulla montagna che sovrasta la sponda piemontese del lago Maggiore, quella su cui ci si arrampica per vedere meglio la bellezza che dipinge paesi, isole, monti e valli disseminati su una tavolozza, ognuno coi suoi colori e umori, tutti insieme parte di un paesaggio che affascina e inquieta: mille colori che si cercano e si sovrastano sono la forma di ciò che affascina; mille sguardi che si spengono dove l’orizzonte declina senza aver scoperto che cosa ci sia oltre quel finale di paesaggio sono la misura di un quotidiano che inquieta. Come prima è accaduto altrove, quando il filo che sorregge la vita si è improvvisamente spezzato lasciando cadere il suo carico di uomini, donne e bambini in cerca di futuro tra le onde del mare, all’ombra di un muro, nello scorrere del fiume, su sentieri impervi, in una terra che per tanti è santa ma che agli occhi del mondo è solo e sempre tormentata, tra le foreste sconosciute di un’Europa ancora incapace di accogliere, in luoghi bellissimi (almeno agli occhi dei turisti) ma ancora invivibili a causa di sottosviluppo, malattie, fame e sete…
Oggi lo sguardo è ancora fisso sulla tragedia del Mottarone (quattordici morti a causa della caduta della cabina sulla quale si lasciavano felicemente trasportare per avvicinarsi al cielo e andare a vedere la forma del lago). E lo è, innanzitutto, perché ha toccato il territorio amico, vicino, nostro, tanto amato da considerarlo immune a qualsiasi pericolo, un luogo sicuro; poi perché è accaduta nella domenica che doveva segnare il gioioso ricominciamento e che invece ha ricacciato in un angolo la sospirata e attesa felicità.
La tragedia della funivia che da Stresa sale al Mottarone – è così che sarà ricordata – è adesso ancora gonfia di lacrime, carica di domande senza risposta, colma di orazioni e imprecazioni innalzate in pari misura a quel cielo che dà e toglie senza concedere il tempo per capire, intrisa di cronache minuziose e di impietose immagini; poi, dopo il generale cordoglio, la tragedia diverrà materia per inchieste giudiziarie finalizzate alla ricerca della verità, soggetto e oggetto per pomeriggi e serate di televisione senza rete e anche (purtroppo) senza ritegno, occasione per riempire i giorni, per altro già predisposti a sopportare dubbi e dolori, di se-ma-forse-chissà-perché…
Tornano allora le stesse domande (perché qui e adesso? perché il caso si prende la libertà di sconfiggere la vita? perché la tragedia si accanisce contro bambini desiderosi soltanto di sorridere alla vita?), inquietanti e senza risposte… Il vescovo di Novara monsignor Brambilla (Stresa e la montagna di Mottarone sono parte della sua Diocesi) ha chiesto a tutti di riflettere sulla tragedia e di trovare nella tragedia un tempo da dedicare ai bambini coinvolti, depositari di un dolore senza fine e senza apparente giustificazione. “Il dolore innocente dei bambini – ha detto il presule – è straziante. Però, non possiamo attribuire a chissà quale fatalità cose che hanno a che fare con ciò che compete agli umani”.
Quel che è certo, ha ieri mandato a dire uno sconosciuto lettore, “è che non sappiamo nemmeno dove mettiamo i piedi; che siamo più fragili e vulnerabili di quanto possiamo credere”.Così si procedea tentoni, interrogando la storia, la filosofia, la fede per sapere se abbiano “qualcosa da dirci, qualche consiglio da darci”.
La tragedia della funivia e poi tutte le altre tragedie… Per dare un senso a qualcosa che appare senza senso, vale ancora adesso quel che ha scritto ieri Maurizio Patriciello: “Come si fa seria la vita quando il dolore, senza chiederti il permesso, sfonda la porta e s’ insedia nella tua esistenza; come sbiadiscono, fino a scomparire, le pretese delle mille cose inutili che da mattina a sera ci assediano. Non bisogna smetterla d’imparare a vivere, imparare a carpire la gioia vera che si nasconde nel condividere ciò che abbiamo ricevuto, a cominciare dal dono della vita, dell’amicizia, della fede. Sentirci partecipi di una sola, grande, famiglia che non smette di irradiare luce, calore, solidarietà, affetto, è il meglio che possiamo fare oggi”. Impossibile? Forse sì. O forse dipende solo da noi. Da noi che, nel medesimo tempo, siamo spettatori muti ma anche interpreti vocianti di ciò che i giorni riservano e regalano.
LUCIANO COSTA