Quella foto vale mille parole

Per colpa dei troppi anni passati prima tra giornali e poi in video (televisione privata nei tempi eroici degli inizi sempre e comunque servizio di informazione e intrattenimento, ogni giorno lì a fare i conti con le ore da riempire e il poco a disposizione; televisione di strada dove il miglior articolo di fondo era quello che si poteva scrivere sapendo che i conti erano in ordine e che il presupposto di televisione libera, cattolica e democratica era rigorosamente salvaguardato proprio da quel dare e avere in perfetta sintonia) non faccio testo. Però, con qualche esperienza in saccoccia e il beneficio degli anni – tanti – che fanno da cuscino all’esperienza accumulata, posso serenamente accingermi a qualche divagazione, obbligatoriamente polemica e poco rispettosa del modo di fare televisione, su quel che passano le conventicole che reggono le televisioni e i loro palinsesti.

Ieri, per esempio, ho visto scorrere sui teleschermi, quasi di sfuggita, quella che invece era e doveva essere la fotografia del giorno, il tema del giorno, l’articolo di fondo della giornata: un papà menomato di una gamba che abbandona la stampella per alzare al cielo il figlio mutilato degli arti inferiori e superiori dalla malattia. E facendolo, sorride, sorride e sembra dire al figlio “insieme vinciamo…”. Dietro alla loro gioia si vedevano chiaramente le rovine causate dai bombardamenti e alle cannonate, dietro di loro niente specificava che quella era la martoriata Siria, terra di stragi e di guerre senza fine. Però padre e figlio sorridevano, sorridevano alla vita. Mi sono detto: ci vorrebbero dieci, cento mille dirette televisive per raccontare quella fotografia, quel sorriso e le storie contenute in quel sorriso. Invece, sui casalinghi schermi televisivi imperversavano il pettegolezzo, l’inutilismo (scienza non scritta ma praticata quando si pesta l’acqua nel mortaio o si dà, tanto per fare qualcosa, aria alla bocca, oppure si dà credito all’oroscopo, alla piega dell’onda, all’onda narcisistica dell’io sono io e via discorrendo, però tra poco, perché è in quel tra poco usato e sventagliato a bordo video che si nasconde la rivelazione sensazionale), il nulla, il banale…

Eppure, anche a quel desolato panorama in cui parole vacue e vane rincorrevano parole altrettanto vane e vacue, quella fotografia gli avrebbe ridato dignità. Certo, ci sono milioni di immagini che scorrono senza lasciare traccia nel nostro andare quotidiano fra gli schermi di computer e telefonini, su canali media e social. Ma poi, se sei attento e se ti resta la sensibilità del cercatore di verità (che sarebbe l’esercizio principale di qualunque cronista) arriva la fotografia, quello scatto capace di scuoterci più di qualunque parola, di qualunque post o racconto, che impone di fermarci, di riflettere, di uscire dalla bolla dell’indifferenza.

Una fotografia, scattata tra le macerie della Siria, e non il roboante comizio di un potente Capo di Stato, ha improvvisamente calamitato l’attenzione di tutti, costringendo a puntare gli occhi sul dramma del popolo siriano. Quella fotografia, racconta il cronista “ritrae un padre mutilato di una gamba che si regge su una stampella e gioca con il suo piccolo di cinque anni, Mustafa, nato senza arti inferiori e superiori per una malformazione, la tetramelia, causata dall’assunzione di farmaci dalla madre, colpita durante la guerra dal gas nervino”.

Padre e figlio sorridono, sorridono. E sorridendo ricordano a chiunque abbia voglia di ascoltare e vedere, che nonostante “La difficoltà della vita” (titolo dato alla fotografia scattata dal fotografo turco Mehmet Aslan e premiata al Siena International Photo Awards) un mondo migliore è ancora possibile. Aslan, fotografo senza meta, ha spiegato di aver “scattato la foto ad aprile di quest’anno, nella provincia turca dell’Hatay, al confine siriano, in cui vivo e dove hanno trovato rifugio tantissimi rifugiati siriani. Il giorno dello scatto una equipe medica era venuta nella zona per visitare il piccolo Mustafà ed è stato un momento di gioia. Ho scattato la fotografia sperando di attirare l’attenzione dei media, sperando che l’immagine potesse contribuire alla ricerca di protesi del bambino rifugiato”.

Il padre che alza suo figlio al cielo si chiama Munzer El Mezhel. Nel 2006 si trovava nel mercato di Idlib con la moglie incinta, quando una bomba scagliata da un aereo del regime di Damasco è esplosa poco lontano. Lui ha perso la gamba, la moglie si è salvata. Ma poi Mustafà nascerà senza arti. “Abbiamo cercato per anni di farci sentire per aiutare mio figlio con i trattamenti, faremmo di tutto per dargli una vita migliore”. Adesso “quella foto è arrivata al mondo” e ricorda con verità e profondissima amarezza che c’è una guerra che miete vittime, ogni giorno.

Oggi è la foto di Mustafà e di suo padre a scuotere le coscienze assopite di chi è lontano dalla guerra; qualche tempo fa toccò a quella che ritraeva il piccolo Alan Kurdi (il bambino siriano di tre anni, di etnia curda, disteso senza vita sulle spiagge vicino Bodrum, divenuto il simbolo del dramma dei migranti in Europa) interrogare il mondo sul dramma vissuto da tanti, troppi, disperati fuggiaschi. Mustafà e Alan dicono che la tragedia non è finita, che c’è un popolo in fuga e che ci sono bambini che soffrono. Le due fotografie stanno facendo il giro del mondo, ma non hanno ancora la forza di cambiare la storia.

Così vanno le cose in questo mondo malato e diviso, Però le fotografie di Mustafà e di Alan impongono di fermarci a guardare per meditare sul dovere di fare qualcosa per cambiare le cose. Probabilmente non lo faremo, ma almeno dovremmo provarci, senza arrendersi all’ennesima “prova di una indignazione a intermittenza”, buona per ogni evenienza ma inutile se non accompagnata da gesti e atti concreti. Nonostante tutto continuo a credere che il sorriso di Mustafà, di Alan, di mille altri bimbi sconosciuti, di mamme e papà che sognano mondi nuovi è ancora e sempre “una speranza che non possiamo tradire”.

LUCIANO COSTA

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