Impietose le immagini della motovedetta che rincorre, spara e cerca di speronare il gommone carico di disperati; assurdo, incivile, cattivo e ingiustificabile quel modo di comportarsi su acque marine che sono di tutti, soprattutto perché su di esse nessuno può impiantare pali divisori; significativo che la piccola imbarcazione abbia costretto la grande motovedetta a tirare i remi in barca e a darsi per vinta; istruttiva la lezione che Davide ha impartito a Golia (sempre che da quelle parti qualcuno sia disposto ad accettarla). La scena, vera e tragica, si è svolta in mare aperto, la motovedetta era quella della marina della Libia, il gommone uno dei tanti in fuga verso l’’ignoto e di sicuro aggrappato alla speranza di approdare su qualche spiaggia amica. Poteva restare una scena oscura in un mare oscuro, invece tutto è stato filmato, registrato, distribuito in rete e da qui arrivato fino alle televisioni di tutto il mondo.
Guardando le immagini ho ricordato quel che prevede il Diritto Marittimo, l’unico ad essere accettato universalmente, a proposito delle persone (qualunque sia il morivo che le vede in quella situazione) improvvisamente cadute in balia delle onde: chiunque siano e quale sia il motivo esse devono essere soccorse, aiutate, salvate e accompagnate al porto più vicino. Dopo aver riletto quelle parole scritte perché fossero legge uguale e rispettata per tutti coloro che viaggiano su mari aperti, ho visto il comunicato con il quale la a Guardia Costiera libica an nunciava di aver aperto un’inchiesta per fare piena luce sull’accaduto. “Esaminate le immagini in cui si vede la motovedetta che insegue un barcone carico di migranti – così leggo e così riferisco – mettendo in pericolo le loro vite, così come quelle dei membri dell’equipaggio della motovedetta stessa, è stata aperta l’indagine”.
Come è noto l’Italia ha un passato che la costringe a mantenere con la Libia rapporti di sicuro improntati al senso della solidarietà ma, in qualche modo, anche riparatori di ciò che è accaduto negli anni delle conquiste africane volute dal regime fascista. Anche per questo la notizia dell’indagine interna, arrivata a pochi giorni dal voto italiano per il rifinanziamento delle missioni in Libia, è stata accettata come segno di buona volontà nella ricerca di colpevoli e mandanti di quella sciagurata azione. In attesa di notizie (dubito che saranno vere e che verranno fornite secondo verità, prendo nota che insieme al rifinanziamento delle missioni c’è anche la clausola che prevede il sostegno diretto ai guardacoste con la permanenza a Tripoli di una nave officina della Marina militare italiana incaricata di svolgere gratis la manutenzione delle motovedette libiche donate dal nostro Paese. “Dal 2017 il costo sostenuto dai contribuenti italiani a sostegno dell’accordo Italia-Libia per bloccare i flussi migratori – ha scritto ieri l’altro Avvenire – è stato di oltre 213 milioni di euro, sui circa 800 milioni stanziati per interventi nel Paese. Soldi usati anche per addestrare ed equipaggiare i guardacoste, che però in mare agiscono più secondo gli standard dei pirati somali, che secondo quelli delle guardie costiere europee”.
Nelle cronache riferite da inviati e agenzie di stampa si legge che “i guardacoste libici si sono allontanati per oltre 110 miglia dal porto di Tripoli e sono arrivati a sole 45 miglia da Lampedusa. Non era mai successo che una motovedetta tripolina si spingesse così a Nord per inseguire dei migranti, lasciando però che altri barconi raggiungessero indisturbati a Lampedusa. Un allontanamento dalla costa costato almeno 8 ore di navigazione fino a quasi l’area di ricerca e soccorso italiana”. E n on è la prima volta, ha scritto un inviato “che le violazioni delle più basilari norme della navigazione e del soccorso vengono platealmente violate da Tripoli. Ma stavolta l’imbarazzo per le conseguenze anche politiche di una tale azione superano qualsiasi possibile giustificazione”
I vertici della Marina Libica hanno scritto: “Confermiamo la nostra volontà nel proseguire lo svolgimento dei nostri compiti e doveri, salvare vite in mare e proteggere le coste libiche, secondo le leggi e i regolamenti umanitari riconosciuti a livello locale e internazionale”. Se fosse vero, sarebbe un buon segnale di novità. Purtroppo è risaputo che la realtà giuridica libica cammina su linee ben lontane dallo spirito internazionale. Il Paese, infatti, non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra per i Diritti dell’Uomo e, come ha nuovamente ricordato l’Onu, il Paese non è riconosciuto come “luogo sicuro di sbarco”. Perciò, riportare a terra i migranti, destinati ai campi di prigionia, costituisce una violazione dei Diritti Umani. Violazione che però in Libia non è perseguibile.
LUCIANO COSTA