Ieri, siccome era lunedì, è stato tutto un ruotare attorno allo sport, quello giuocato ma anche, e soprattutto. quello parlato. Le pedate prese e date, le ruote perse, i motori singhiozzanti, le palline andate in rete, le palle salite a canestro o schiacciate a terra – tanto per nominare le attività più gettonate – sono state ridotte ai minimi termini per lasciare spazio all’annuncio della probabile nascita, per altro annunciata da tempo, di un mostro calcistico chiamato Superlega. La bufera, arrivata nella notte, è continuata per l’intera giornata occupando le prime pagine dei giornali e qualunque spazio radiotelevisivo disponibile.
Scrivendo o parlando, tutti hanno raccontato che dodici club europei di calcio (tre italiani, quattro spagnoli e sei britannici: i più titolati, ricchi e osannati) si sono messi d’accordo per costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale, la Super League, governata da loro medesimi e destinata, cammin facendo, a rimpolparsi con nuove e titolate adesioni. Per adesso siamo agli annunci, ma in un futuro, forse prossimo o forse remoto, (magari avverrà dopo che loro, nuovi signori del calcio, avranno convinto UEFA e FIFA, attuali gestori del grande circo calcistico europeo e mondiale, che lavorare insieme e insieme cooperando per il raggiungimento dei migliori risultati possibili produrrà guadagni assai più consistenti) quello potrebbe essere il grande panorama calcistico a cui fare riferimento.
Come sempre, tutto o quasi tutto, ruota attorno al dio denaro: miliardi, mica noccioline. E se le dodici società ribelli puntano a rimpinguare le casse con qualche miliardo di euro in più all’anno, così Uefa, Fifa e le federazioni nazionali temono di vedere calare i loro introiti, per altro non secondari e, soprattutto, di fresco assicurati da un accordo firmato con colossi televisivi che, è facile immaginarlo, nel caso al pacchetto acquistato vegano meno i nomi che di fatto sono quelli che il mercato mondiale pretende di vedere, aprirà contenziosi economici la cui consistenza fa già venire i brividi. Comunque vada, quello che si annuncia è un gran pasticcio, non nuovo (basta leggere la storia per accorgersi che divisioni e liti si sono già consumate e anche aggiustate, qui e altrove, nel calcio come nel rugby, nel basket come nel baseball e via discorrendo), ma comunque preoccupante sebbene districabile. Ovviamente, politici permettendo. Infatti, se ieri è bastato sentirli sentenziare per dire che lo sport in generale e il calcio in particolare, è questione sociale, addirittura vitale e primaria, quindi non alienabile e neppure riducibile a sollazzo occasionale di pochi, da oggi in avanti dovranno fare molto di più.
In verità, pur avendo tirato calci al pallone e avergli concesso (ossequio a Eupalla) largo spazio allorquando la porta televisiva venne spalancata anche alle private, resto il meno adatto a parlare-scrivere-disquisire-ammonire-ammansire e recensire quel che avviene attorno a un “oggetto gonfiato” e mandato in campo a miracolo mostrare. Infatti, sono tra quelli che il calcio lo digerisce a piccole dosi. Giusto quanto basta per carpire il risultato della squadra del cuore (che se non vi offendete resta Madama Juventus), godere sprazzi di tele-radiocronache che scimmiottando il passato non onorano il presente, girare al largo dagli opinionisti, imprecare ai “processi” partecipati da forsennati ed offerti ad aspiranti alla stupidità cronica, inorridire di fronte a “sondaggi” che più cretini di così non si può, far spallucce ai programmi a tutto campo (che, se proprio va bene, dicono meno di niente) e girare canale quando va in onda la registrazione di una partita della quale, grazie ai potenti mezzi della comunicazione, si sa già tutto. Per di più, vado, se vado, alla partita con la stessa frequenza con la quale un astemio va all’osteria. Ciò non toglie che abbia una mia idea sia sul calcio come spettacolo che appassiona milioni di italiani, sia sull’utilizzo del contenitore (lo “stadio”) e dei contenitori (radio, televisione e giornali) a lui riservati.
Sul calcio inteso come autentico spettacolo frutto di gioco collettivo e leale (mi limito, volutamente, solo a questo aspetto, che dovrebbe anche essere l’unico data l’impossibilità di considerare spettacolo il calcio arrabbiato vissuto da tifoserie oltranziste o da ultra beceri e violenti) la penso, credo, alla maniera della stragrande maggioranza degli italiani: fa bene alla salute, distende i nervi, fa dimenticare gli affanni, induce ad un sano esercizio fisico e vocale, riconduce le masse ad un sano dualismo (rossi da una parte, bianchi dall’altra e vinca chi ha più fiato da spendere al mercato del tifo). Sull’utilizzo del contenitore-stadio (ovviamente quando tornerà a essere popolato), invece, ho qualche riserva. Ad esempio, non credo all’utilità, per la singola città, di possederne e gestirne uno così come non reputo normale che un luogo destinato allo svago debba essere corazzato, cintato da mura sormontate spesso da filo spinato, arricchito da barriere formate da cristalli infrangibili-antiurto-antisommossa, protetto da centinaia di agenti, guardato a vista da altrettanti volontari e dotato di sofisticati sistemi televisivi a circuito chiuso. Vedrei bene lo stadio come luogo di incontro e di festa; mi piacerebbe considerarlo “libero centro di aggregazione e di intelligente occupazione del tempo libero”; non mi dispiacerebbe affatto saperlo frequentato da gente di provata civiltà e in possesso di un sano senso dell’umorismo (che serve a saper vincere, ma anche a saper perdere). Per radio, televisioni e giornali, che di fatto sono i contenitori di tutto ciò che accade, sogno ruoli lontani dalla pretesa di essere “meditazioni seriosissime, arrembanti propositi, fabbriche di parole e mercimonio di illusioni” e vicini invece all’essenza delle cose, che se anche rincorrono un pallone gonfiato, sono sicuro, possono regalare emozioni degne d’essere condivise.
Poi, sarà quel che sarà. Vale a dire: la superlega nascerà e imporrà la sua visione di calcio utile a far utili; lo stadio rimarrà il contenitore di rabbia e sogni che è sempre stato; radio, televisioni e giornali faranno a gara per assicurare al grande pubblico l’impressione di essere protagonista e non semplice spettatore degli eventi.
LUCIANO COSTA