Aveva tutto, Dominique Lapierre: il successo e una fama internazionale, una villa sulla Costa Azzurra cui aggiungeva una stanza in più per ogni bestseller scritto con l’inseparabile Larry Collins, i cavalli nella scuderia e in garage la Rolls Royce con cui aveva viaggiato dall’India alla Francia, la gioia di vivere e un inesauribile gusto dell’avventura; ma a un certo punto aveva visto qualcosa, a Calcutta, che aveva cambiato la sua esistenza.
Sta qui il mistero e forse l’autentica grandezza del famoso scrittore, scomparso a 91 anni (la notizia è stata diffusa domenica dalla vedova) dopo un decennio di malattia che ne aveva spento l’enfasi della voce e la mano di autore sperimentato. Che sia stato l’incontro con Madre Teresa all’inizio degli anni Ottanta, oppure con il missionario James Stevens o con qualche altro sconosciuto abitante dello slum poi tratteggiato nella celeberrima Città della gioia (oltre 10 milioni di copie in 40 lingue), o ancora semplicemente con quell’India che in un altro volume aveva definito «mon amour», Lapierre non l’ha mai rivelato veramente.
Nelle affollate conferenze che instancabilmente tanti amici gli organizzavano in giro per l’Occidente ricco (numerose pure in Italia) per raccogliere denaro di cui far vivere i molti progetti per i poveri dell’India, preferiva spendere le storie di coloro che aveva definito «eroi»: il conducente di risciò o la bambina raccoglitrice di pezzetti di carbone che, sopravvivendo nelle bidonville e sui marciapiedi di Calcutta, non dimenticavano la reciproca solidarietà e riuscivano a non perdere il sorriso.
Del resto Dominique Lapierre anche nei libri che gli avevano dato fama, imbastiti di storia reale ma con piglio di romanzo, insieme al sodale americano Collins aveva cercato di investigare le contraddizioni della condizione umana in alcuni grandi momenti rivelatori: la minaccia hitleriana di distruggere la capitale francese (Parigi brucia?, 1965), la contrastata nascita di Israele (Gerusalemme! Gerusalemme!, 1972) e l’indipendenza dell’India (Stanotte la libertà, 1975), lo sviluppo storico del Sudafrica (Un arcobaleno nella notte, 2008, scritto con il nipote Javier Moro come già nel 2001 Mezzanotte e cinque a Bhopal, sulla tragedia della fabbrica chimica indiana). Volumi da cui venne tratto più di un film.
Poi appunto quella che era sembrata la svolta, con gli altrettanti bestseller firmati da solo e legati all’avventura umanitaria: ovviamente La città della gioia (1985), poi Più grandi dell’amore nel 1990 (sull’epidemia di Aids e chi tentava di curarla), Mille soli del 1997, fino a Gli ultimi saranno i primi apparso all’inizio del 2012. Una scrittura strettamente collegata alle iniziative benefiche che il «piccolo Dominique» continuava ad alimentare con la «grande Dominique», l’inseparabile e devotissima moglie. E collegata non soltanto per l’argomento: Lapierre era infatti assillato dalla necessità di sostenere economicamente i progetti che gli venivano di continuo richiesti dall’India – dai 14 centri per figli di lebbrosi ai 4 battelli-ospedale sul Gange, dai 600 pozzi fatti scavare dove non c’era acqua potabile ai dispensari per malati di tbc -, affinché durassero anche dopo di lui. Per questo era giunto addirittura a vendere la sua prestigiosa villa di 14 stanze, riservandosi uno spazio nella dependance.
Inevitabili le accuse di protagonismo. Ma vuol dire non aver capito che, sotto il travolgente e obbligatorio ottimismo del buon comunicatore, stava la serissima consapevolezza che – diceva Madre Teresa – «tutto ciò che non è donato va perduto». Lapierre lo credeva davvero, tanto da non ritenersi appagato delle avventure guascone di cui aveva costellato l’esistenza: dal viaggio compiuto diciassettenne attraverso gli Stati Uniti con solo «Un dollar les mille kilomètres», alle inchieste realizzate per “Paris Match” in Unione Sovietica, alla «luna di miele intorno al mondo» condivisa con la prima moglie e a bordo di un’auto decrepita. In un’intervista lo scrittore rivelava: «Ognuno ha il suo carisma. Se mi chiedete di andare a condividere la vita delle bidonvilles, risponderei sicuramente di no; sarei incapace di stabilirmi a Calcutta per curare i lebbrosi. Penso che ciascuno esiste per fare il meglio che può per servire la causa, pertanto credo di essere più utile scrivendo articoli, facendo conferenze, donando i piccoli talenti che ho a servizio dei più poveri. Io e mia moglie abbiamo incontrato persone che ci hanno dato più di quanto noi doneremo mai loro. E non si tratta nemmeno di restituire il tanto che la vita ci ha concesso, ma di condividerlo con persone che non hanno avuto la stessa chance».
Lapierre girava sempre con uno zainetto da cui usciva un tintinnio prodotto dal sonaglio che gli uomini-cavallo dei risciò usano come clacson nel traffico da giungla di Calcutta. Per lui, ogni passo seguito da un suono, rappresentava l’appuntamento con un impegno benefico. Perché dietro l’angolo, e Dominique lo sapeva, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di aiuto.
ROBERTO BERETTA (Avvenire)