Ricordare e ripensare Paolo VI

Sono già passati quarantaquattro anni dal giorno in cui Paolo VI, il Papa bresciano – autentico maestro e sostenitore dell’umanesimo integrale, testimone di verità e di giustizia, ricercatore ostinato della pace e del progresso dei popoli, colui che raccolse la provocazione del Concilio Vaticano II proposto dal suo predecessore e la trasformò in “rivoluzione permanente” per tutta la Chiesa -, che la Chiesa ha elevato alla gloria degli altari col titolo di Santo, ci ha lasciati. Era il 6 agosto 1978 e le campane di tutte le chiese del mondo suonarono a lutto. Se ne era andato un Grande Spirito, un Profeta di umanità che era stato “Papa del Concilio” (lo ebbe in eredità da Giovanni XXIII e lo portò a compimento con coraggio e lungimiranza), “Papa del Dialogo” (dentro e fuori la chiesa, con tutti e con tutte le religioni), “Papa della Pace” (somma di più giustizie applicate e vissute, non soltanto assenza di guerre) e, soprattutto, “Sacerdote” misericordioso e fedele, Maestro di umanità.

Ricordarlo è doveroso, rileggere il suo tempo è prezioso, riandare alle parole con cui illuminava la strada da percorrere se il fine era quello di raggiungere la gioia, resta ancora adesso una risorsa indispensabile per costruire un futuro degno d’essere vissuto e condiviso. I suoi discorsi, pronunciati in tempi diversi del suo eccezionale Pontificato ma sempre con lo stile profondo e semplice, amorevole e preoccupato del bene di tutti gli abitanti della terra, sono vivi, attuali, pieni di fascino spirituale; sono discorsi che ammoniscono e invitano a guardare il futuro con occhi ricolmi di Speranza Cristiana. Paolo VI ha infatti parlato a ciascuno di noi perché anche per noi fosse più facile intravedere le porte della Speranza, i cieli e le terre ricolmi di giustizia e di pace, le strade della fratellanza universale, le buone risorse della solidarietà, la misericordia e la grazia di Dio Padre che tutto vede e provvede.

Rileggere oggi il tempo di Papa Paolo VI significa riprendere le fila di un insegnamento e di un incoraggiamento che il tempo esalta piuttosto che assopire. E’ anche occasione propizia per rivisitare i suoi passi: quelli che conclusero il Concilio Vaticano II e quelli che lo condussero, “pellegrino sulle strade del mondo”, incontro ai poveri più poveri e di fronte ai potenti per gridare ed invocare, per tutti, “pace e giustizia, lavoro e dignità, speranza e amore”.

Ricordare Paolo VI a quarantaquattro anni dalla sua morte significa anche riflettere su ciò che Lui ha donato all’umanità. Se per noi e per il mondo Egli è stato il Papa della Speranza, il Fratello che ha condiviso gioie e dolori dell’umanità intera, l’Uomo della Pace, il Sacerdote umile e devoto che a Dio ha offerto la sua vita per il bene di tutti, allora il “dovere della testimonianza e della solidarietà, vere e proprie virtù – come disse ai bresciani in una memorabile udienza – che ogni uomo e, soprattutto, ogni cristiano, deve esercitare in umiltà e con infinita pazienza” devono essere ancora e sempre esercizio e pratica di ogni giorno.

Di Papa Paolo VI, suo “predecessore e maestro” Giovanni Paolo II, in visita a Brescia, tracciò un ritratto possente. Disse: “Pochi come Lui hanno saputo interpretare le ansie, gli ardimenti, le fatiche e le aspirazioni degli uomini del nostro secolo. Volle camminare al loro fianco: si fece per questo pellegrino sulle loro strade, incontrandoli là dove essi vivono e lottano per costruire un mondo più attento e rispettoso per la dignità di ogni essere umano… Volle essere servo di una Chiesa evangelizzatrice degli uomini, chiamata con ogni persona di buona volontà a costruire quella Civiltà dell’amore nella quale non vanno agli ultimi soltanto le briciole del progresso economico e civile, ma dove devono regnare la giustizia e la solidarietà”.

Se così è, allora ricordare Papa Paolo VI significa farsi carico della missione, certo ancora incompiuta e perciò bisognosa di ulteriori impegni, che Lui ha affidato a tutti gli uomini di buona volontà. Quella di essere “operatori di pace” e dispensatori infaticabili “di gesti amorevoli”.

Era il 6 agosto 1978, domenica in cui i cristiani celebravano la Trasfigurazione di Cristo. Quel giorno il Papa della “civiltà dell’amore” concludeva il sui giorni terreni e iniziava quelli gloriosi, assicurati ai Giusti che come Lui avevano reso fertile la terra calpestata. Paolo VI andò incontrio alla morte con animo sereno e gioioso, fedele a ciò che aveva scritto nel Pensiero alla morte e nel Testamento: “Fisso lo sguardo verso il mistero della morte e verso ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo rischiara, aspetto il grande incontro finale con umile e serena fiducia”.

La morte lo colse nella sera che rammentava la Trasfigurazione del Signore. La notizia della sua morte rimbalzò nel mondo suscitando un corale cordoglio. A Brescia e nella sua provincia, dove era nato e cresciuto, il mattino del 7 agosto le campane suonarono a lutto per annunciare la morte di un “grande nella Fede, nella Speranza e nella Carità”. A Ponte di Legno, paese dell’alta Valle Camonica, dove Paolo VI, prima della elezione al soglio pontificio aveva trascorso sereni periodi di vacanza, in un mattino pieno di sole don Giovanni Antonioli, il parroco che con la disponibilità del montanaro e la sapienza del pastore aveva accolto e condiviso le confidenze dell’amico monsignore – bresciano, romano, milanese e sicuramente universale -, asciugando la “furtiva lacrima” rimasta ad aspettare, con semplicità disse quel che in tanti già pensavano: “Oggi il mondo è sicuramente più povero di ieri”.

LUCIANO COSTA

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