Un anno dopo la denuncia della creazione di muri in Europa e dall’avvio della campagna solidale denominata “lanterne verdi”, nulla è cambiato sul lungo confine tra Ue e Bielorussia, che include Polonia e Lituania. Nonostante i muri e il filo spinato, il flusso dei profughi non si è fermato. Si sospetta che vi sia stata, come l’anno scorso, un’attività di propaganda della rotta da parte dei russi nei campi profughi africani e mediorientali attraverso la concessione di visti turistici. E l’autorità aeroportuale di Kaliningrad, l’enclave russa tra Mar Baltico, Lituania e Polonia, ha annunciato due mesi fa un aumento di voli in arrivo da Medio Oriente e Nord-Africa.
Adesso però, le lanterne verdi nella foresta non ci sono più: spente perché se agli inizi indicavano la strada ai profughi o offrivano ospitalità, sono poi state usate dalla polizia polacca per trarli in inganno, catturarli e respingerli in Bielorussia. Ma i volontari restano e continuano a salvare vite e a denunciare violenze, respingimenti illegali e abusi. Sfidando la repressione, perché rischiano di venire processati per complicità con i trafficanti di esseri umani.
L’ultimo bilancio stilato da Grupa Granica, insieme di Ong e associazioni polacche che aiutano i profughi nella zona rossa, è pesante. Secondo i volontari, tra il 1° ottobre e l’8 dicembre ci sono stati 29 morti e 200 dispersi nella foresta. Le richieste di aiuto sono state 1.200 e 650 le persone aiutate, mentre in 120 hanno ricevuto assistenza medica. Vengono soprattutto da Afghanistan, Irak, Iran, Siria, Sudan e dall’Etiopia, geografia di guerre e oppressione.
Nella zona rossa attraversata dai profughi, il termometro scende fino a 12 gradi sotto lo zero e la foresta si trasforma in una trappola mortale. In ottobre Musa, sudanese 21enne, è morto annegato in un fiume ed è stato sepolto il 6 dicembre nella cittadina di Bohoniki, villaggio della minoranza tatara vicino a Bialystok, dove da secoli vive una comunità islamica e c’è un cimitero per musulmani. La famiglia ha saputo della sua morte dai social network. L’ultimo a morire è stato il 21 dicembre un anziano siriano di 66 anni, Jaber. Hanno trovato il cadavere due giorni dopo la deportazione in Bielorussia da parte dei poliziotti polacchi. Sempre il 21 dicembre cinque rifugiati etiopi hanno lanciato un Sos e i volontari li hanno trovati in mezzo alla neve, rannicchiati, tremanti e semi assiderati con vestiti e scarpe inadatti alle temperature rigide. Le guardie polacche li avevano già respinti quattro volte con la violenza e le guardie di confine bielorusse li hanno spinti con gli stessi metodi verso la terra di nessuno, tra la frontiera di muri e filo spinato che segna la fine della Bielorussia e l’inizio della grande Europa.
«Le violenze e gli abusi delle guardie bielorusse e polacche continuano, senza pietà» conferma l’attivista sociale Sofia Krasnowolska. Un video girato dai polacchi e postato sempre sui social mostra il “pipistrello della Podlasia”, come l’hanno beffardamente chiamato i giornali locali. Si vedono i militari di Varsavia deridere un profugo mediorientale appeso a testa in giù sulla barriera di confine, con una gamba impigliata nel filo spinato. Le fotografie dei profughi bloccati nella zona di nessuno tra Polonia e Bielorussia rivelano un campionario di violenza intollerabile: lesioni da percosse, bruciature da scariche elettriche, morsi di cani, fratture esposte causate spesso dal lancio dalla barriera verso il lato bielorusso.
Da fine settembre opera nella foresta delle lanterne verdi anche Intersos, associazione accreditata presso le autorità polacche per intervenire con personale medico-sanitario. «Il flusso sta calando per il freddo – spiega Cesare Fermi, responsabile per l’Europa dell’ong italiana – anche se non abbiamo cifre. Ci basiamo sui contatti telefonici, ma tanti non chiamano i volontari. Soffrono di ipotermia e malattie respiratorie, rischiano di morire perdendosi senza acqua né cibo in mezzo al ghiaccio. Ci sono soprattutto uomini e alcune famiglie con bambini».
Ma che viaggio compiono tutti questi migranti? “Arrivano in Russia in aereo, poi entrano in Bielorussia e da Minsk i trafficanti di vite e persone li portano al confine. Provano a passare e, se vengono respinti dai polacchi, le guardie bielorusse a loro volta li spingono a passare. Se vengono riportate a Minsk con il visto turistico di ingresso scaduto, vengono deportate dalle autorità bielorusse nei Paesi di provenienza in spregio al diritto internazionale”.
Da mesi opera nella foresta un gruppo di volontari legato a Kik, club degli intellettuali cattolici, associazione nata nel 1956 e che negli anni della rivoluzione polacca aderì a Solidarnosc. Riunisce studenti e studiosi che vogliono la piena applicazione del Concilio Vaticano II nella chiesa polacca. «Non potevamo restare indifferenti – ha spiegato il portavoce dell’associazione –. Portiamo generi di soccorso ai migranti lavorando con altri gruppi e segnaliamo i casi più gravi ai sanitari. Muoversi nella zona rossa è complicato per i controlli. Ma salvare vite umane è più importante”. Kik ha subito perquisizioni e una volontaria è finita sotto processo con l’accusa di complicità con i trafficanti di esseri umani, ma è stata assolta”. I tribunali polacchi in almeno dieci casi hanno stabilito che i respingimenti in Bielorussia sono illegali e violano la legge internazionale. “Nonostante questo – ha spiegato il portavoce dell’associazione – l’ufficio che dovrebbe far rispettare i diritti umani, ha licenziato senza ragione uno tra i piùattivi difensori civici, quello che più si batteva per far presentare ai migranti domanda di asilo”.
Davvero un pessimo segnale. Così, un anno dopo, la foresta alle porte orientali d’Europa, dove si erano accese le lanterne verdi della solidarietà, rischia di precipitare in una oscurità disumana. Tutto questo senza che dall’Europa e dal mondo si alzi la voce per dire “basta” e per ribadire che “questa non è civiltà”.
FABRIZIO LUCIANI