Una volta accadeva tutto in un giorno. Partenza all’alba, ore di corsa appassionata in giro per l’Italia e ritorno a Brescia quando le mille miglia previste dal copione erano state onorate. Che tempi! Adesso – voglio dire oggi -, si parte al mezzodì del martedì e si torna a Brescia, dopo aver zizzagato per l’Italia bella vetusta polemica angosciata ma sempre unica e irripetibile, il quinto giorno. E nonostante le fatiche, siate certi, l’Italia sarà felice di mostrarsi come la donzelletta del sabato del villaggio, che vien dalla campagna “in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine…”. Poi, a seguire, il giorno delle premiazioni, delle chiacchiere e dell’immancabile appuntamento al prossimo anno. Allora, cioè fino al 1957, la corsa finiva e il vincitore godeva da autentico principe l’aria del mitico viale Rebuffone (oggi viale Venezia) e l’intero ammontare degli applausi stando ben allineato sotto lo striscione che concludeva l’edizione. Adesso, prima di essere vincitore, il primo dovrà sottomettersi al volere dei media, delle domande banali, dei sorrisi compiacenti, delle strette di mano obbligate e del sottile gioco che gli impone di dar lustro all’organizzazione – perfetta, attenta, puntuale… -, comunque ottima sebbene poco allineata agli alti standard esigiti dall’ospitalità.
Di “Mille Miglia” vecchia maniera ne ho viste alcune quando ancora indossavo pantaloni corti e litigavo coi quaderni delle elementari. La “Mille Miglia” storica, inventata da quattro amici in cerca di emozioni con l’intento di rinverdire i fasti del passato, a cui l’allora sindaco aveva dato credito e consigli, l’ho vista nascere e progredire con velocità folle ottenendo consensi a dir poco strepitosi.
Alla vecchia “Mille Miglia” mi avvicinò Francesco, fornitore di frutta e verdura all’istituto climatico di Salò gestito per conto della Croce Rossa dalle Ancelle della Carità, dove a ridosso del 1950 ero stato mandato per curare le bronchiti che la nebbia della Bassa mi aveva regalato, di cui era direttrice suor Irene, mia zia. Francesco, quando era il giorno della Mille Miglia, caricava me e suo figlio Augusto nella cabina del suo mastodontico Doge (un camion sopravvissuto alla guerra) e raggiungeva Brescia, zona viale Rebuffone, in un posto che consentiva di godere partenza e arrivo della mitica corsa. Ricordo la Mille Miglia del 1954, poi quella del 1955 e del 1956: Anche quella, dolorosa e tragica del 1957, l’ultima della serie originale, turbata dal gravissimo incidente che ne decretò la fine…
Alla nuova “Mille Miglia” mi avvicinai col taccuino e la biro in mano, pronto a raccontare quello che in quell’avvio degli anni ottanta del secolo scorso, per tanti sarebbe stato un colossale fallimento e per altrettanti un successo strepitoso. Ovviamente, raccontai subito il successo dell’iniziativa e appena dopo, alla riproposta, a taccuino e biro, grazie alla liberalizzazione dell’etere che inaugurava la stagione delle libere televisioni, aggiunsi l’occhio della telecamera e la voglia di raccontare “la corsa più bella del mondo” stando nella mischia, pronto a qualsiasi sfida e battaglia per “portare la corsa nelle case dei bresciani.
Di quei memorabili giorni conservo, intatti e in ossidabili, ricordi ed emozioni. Ricordi ed emozioni che in questo anno 2023 – anno di transizione, di attesa, di speranze deluse, di troppe guerre stupide e inutili… -, proprio nel giorno in cui la mitica corsa più bella del mondo inizia il suo nuovo viaggio, rimetto disordinatamente in circolo con preghiera di lettura almeno di qualche attenzione. Dunque…
La Mille Miglia come una vetrina nella quale il mondo, anche il più strano, si mette regolarmente in mostra. Fino alla conclusione della fase competitiva – anno 1957 -, ad esempio, nella vetrina trovavano posto gli agguerriti affezionati che all’esperienza univano la conoscenza di ogni singolo modello, di ogni pur piccola parte di motore, di ogni singolo concorrente. Tra costoro ve ne era uno che veniva, se la memoria non m’inganna, da Langhirano, patria del prosciutto, del quale generosamente distribuiva preziose fette, spiegando e rispiegando che prima di mettersi al volante, Nuvolari voleva proprio un panino imbottito con il suo prodotto. Capitava spesso che i testimoni più accreditati dell’evento, stanchi di sentirlo vantarsi per il fatto di appagare i gusti del grande pilota, gli chiedessero: “Ma sei sicuro che Tazio preferisca il prosciutto invece del salame di Mantova?”. La risposta, sempre la stessa, era piccante: “Tacete, ignoranti. Ignoranti e indegni di respirare il profumo del mio prosciutto e anche quello dei suoi calzettoni”. Seguivano, ovviamente, saporitissime giaculatorie. E profondissime dormite, tutte causate dalla facilità con la quale il Giovanni di Langhirano dava fondo alla scorta di Lambrusco custodita negli zaini-bagaglio che si portava appresso.
Giovanni, mi raccontarono alcuni che lo conoscevano bene, era un contadino solitario: tanto bravo nel suo mestiere quanto incapace di mantenere rapporti normali con il resto del mondo; maestro nell’allevare maiali da trasformare in gustosi prosciutti, ma asino di prima grandezza quando si trattava di commercializzarli; scapolo per colpa più che per scelta; innamorato dei motori ma mai abilitato alla guida. Giovanni se ne è andato per i prati del cielo nel bel mezzo di un gelido inverno, dopo che gli amici non l’avevano visto alla solita osteria del sabato. Per chissà quale congiunzione astrale, quella sera Giovanni aveva infatti deciso di arrampicarsi fino al fienile di stagionatura del suo prosciutto. Lo trovarono, morto ma con il sorriso stampato sulla bocca, accanto al modellino di Maserati che lui stesso aveva costruito servendosi di pezzi di lamiera e di legno strappati ora alla stalla, ora al tetto di casa. Su un cartone aveva scritto: “Con questa Nuvolari vincerà tutte le corse del mondo”.
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In tempi più recenti, un modellino di auto, forse proprio una Maserati, mi consentì di aprire una breccia nel “tenero” cuore (un “tenero” che si faceva “arcigno” quando si trattava di incanalare anche la minima moneta verso i bilanci della grande corsa storica), di Costantino Franchi, l’organizzatore e principe indiscusso della risorta Mille Miglia. Allora la televisione locale – Teletutto, ovviamente -, benché riconosciuta da un buon numero di bresciani come l’unica in grado di reggere il confronto, non navigava certo nell’abbondanza. Si trattava, dopo alcune edizioni di Mille Miglia mandate in onda in differita e senza altro disturbo se non quello di cavare il sangue dalle rape a disposizione, di passare alla diretta e, dunque, di trattare l’evento secondo i canoni imposti dall’avanguardia e dal progresso tecnologico.
Costantino Franchi chiedeva la luna; io, al massimo, potevo offrire qualche lumicino. Ma era obbligatorio concludere. La cartolina in bianco e nero con il modellino di Maserati guidata da un bellissimo bambino biondo era in mostra nella bacheca della tabaccheria. Con sole cento lirette divenne mia. Scrissi: “A Costantino, con l’augurio di una Mille Miglia sorridente e beata”. Prima di iniziare la trattativa gli consegnai quella furtiva cartolina dicendo, spudoratamente, di averla portata da Parigi proprio per lui. Sorrise, gradì, firmò l’accordo: onorevole per lui e per me, che in quel momento rappresentavo “Teletutto”.
Così, per Teletutto, incominciò la serie fortunata delle partenze e degli arrivi della Mille Miglia trasmessi in diretta. Di quel primo esperimento è rimasta famosa la domanda che da conduttore improvvisato ma deciso rivolsi a un concorrente giapponese in perfetto dialetto bresciano. Lui non capì la domanda, io inventai però la risposta. “Ha detto che è felice di essere qui, che tornerà anche il prossimo anno”, spiegai al pubblico televisivo. Per mia sfortuna, l’unica signora autenticamente giapponese presente a Brescia essendo moglie di un bresciano, era all’ascolto. Mi raggiunse telefonicamente e invece dei giusti improperi mi sommerse di complimenti confermandomi, sebbene non capisse come era potuto accadere, che il pilota aveva detto proprio quel che io avevamo spudoratamente tradotto e riferito.
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Un modellino di Bugatti avuto in regalo da un’amica bizzarra e sempre disponibile a ficcare il naso nelle vicende automobilistiche bresciane, invece, mi portò dritto al cuore di una stupenda ragazzona americana. Veniva dalla California e accompagnava il papà, vero appassionato di Ferrari d’epoca, nell’avventura della Mille Miglia. Non potendo navigare in giro per l’Italia per via di un strappo muscolare alla schiena, se ne stava arrabbiata dietro una transenna: tale e quale una figlia di nessuno e, per giunta, incapace di profferire una parola in italiano. Incuriosito, o forse solo desideroso di scoprire donde arrivasse simile bellezza incastonata in un sorriso a dir poco strabiliante, mi avvicinai a lei. L’offerta del modellino di Bugatti la rincuorò e le aprì le porte di una città che già le era sembrata scorbutica ed invivibile. Benedetta ragazzona americana di California!
Il suo indirizzo, insieme alla promessa di renderle visita nel sontuoso ristorante affacciato sull’oceano di San Francisco, di proprietà del padre, sta rinchiuso nel cassetto dei segreti ricordi. Di lei, ad ogni anno di Mille Miglia, tra la folla degli spettatori e tra i concorrenti, cerco e non trovo le sembianze. Chissà, forse quest’anno la ritroverò dietro la solita transenna. E avrà sicuramente in mano quel piccolo, grazioso, intrigante modellino di Bugatti.
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Capita, mentre si annuncia una nuova “rossa avventura”, di concedere spazio eccessivo, eppur gradito, ai ricordi. Quelli raggrumati nelle pagine della corsa, oppure uno, preso a caso tra tanti, per ogni precedente edizione. I ricordi non sono mai uguali e classificati. Ve ne sono di quieti, ma anche di tumultuosi. Quest’ultimi contendono la scena ai tanti segnati da passione ed avventura. Tutti insieme, inesorabilmente, segnano lo scorrere del tempo, rincorrano vincitori e vinti, esaltano i turisti per caso e i ricercatori di emozioni, inventano la cronaca e la colorano ora di rosso, ora di nero, di grigio o di blu notte.
I ricordi obbligano anche a fare i conti con le domande più misteriose e strane. Perché in un mondo votato alla velocità sussiste e si impone un così forte istinto di conservazione? Perché ci prendiamo la licenza di togliere al passato il diritto di conservare i suoi oggetti senza essere obbligato a mostrarli? Perché tanto interesse e così eclatante successo per pezzi da museo mandati in libera uscita?
Come spesso accade perché deve accadere, non servono risposte. E non servono perché la Mille Miglia è – e per fortuna continua ad essere – tutto e il contrario di tutto. E’, cioè, solo e sempre la Mille Miglia: un capolavoro preservato all’usura del tempo e delle mode, una sfilata di macchine sublimi, di nonne maestose uniche ed irripetibili, una corsa lunga un anno, un sogno che a volte prende forma per ascoltare l’applauso della folla.
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Se “importante è partecipare”, allora eccomi qui. In verità mi sento un pennivendolo immerso fino al collo in un bagno caramelloso ed infarcito di luoghi comuni fatti apposta per rimarcare l’esistenza e l’insostituibilità del confine che separa le “masse” dalla “borghesia”. Però, se è questo ciò che esige la commedia che va a principiare, sono felicemente disponibile a fare la mia parte. La quale comincia, si ben chiaro, quando tutto lo scibile umano targato “mille miglia” è già stato copiosamente versato in supplementi, opuscoli, depliant, cataloghi più o meno ufficiali, fogli sparsi, riviste e rivistine che oggi troviamo disseminati tra corsie rese impercorribili dalla massa di “nonne motorizzate” in attesa di compiere il rito che le unisce, forse indissolubilmente, alla “corsa più bella del mondo” o distrattamente distribuiti da giovani, esili e bellissime femmine sottratte, per un giorno, alla loro vocazione di liceali, di modelle, di aspiranti al successo mediatico e via discorrendo.
Piazza Vittoria, nonostante il suo fascino “retrò” così poco disponibile a farsi poesia sia universalmente riconosciuto, nel giorno della “Mille Miglia” favorisce, in maniera inversamente proporzionale, lodevoli pensieri e profonde meditazioni. Il genere umano che oggi la popola, ad esempio – per la serie “lodevoli pensieri” -, è quanto di meglio si possa immaginare riunito in un rettangolo grande meno di un campo di calcio. Consci e felici di essere parte di un evento osannato ed amato lì, infatti, si contano industriali, banchieri, finanzieri, cantanti, attori, principi, politici, baroni, commercianti, luminari, commercialisti, chirurghi, professori, professionisti, piloti, calciatori e loro accompagnatrici o consorti (tutte tirate a lucido, dunque bellissime, levigate, abbronzate, eteree e appetibili) il cui reddito complessivo – per la serie “meditazioni profonde” – potrebbe oscurare quello di un qualsiasi Paese terzo o quartomondista.
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Ricordo un Lucio Dalla (pacioso, corrucciato e barbuto come solo un cantante socialmente evoluto può esserlo), che mentre scompigliava il branco degli inviati speciali, faceva dire al solito Pierino: “Che fine ha fatto Angelita?”. Appunto, caro Lucio, che fine ha fatto la bambina testimone innocente dello sbarco alleato ad Anzio, quella che una generazione di inguaribili utopisti elevò, dopo la tua bella canzone, a simbolo di un mondo finalmente pacifico, lontano da ogni rigurgito guerrafondaio, più attento alla felicità degli occasionali abitanti che al lupo cattivo?
E tu, bionda e bellona venuta da chissà dove a miracolo mostrare (e che miracolo!), che cosa pensi di tanta sublimazione racchiusa nello spazio di una corsa? E voi, voi che state oltre le transenne godendovi pillole di spettacolo e sognando il timidamente annunciato arrivo della Giovanna d’Arco delle commesse, che dite?
Tutti insieme dicono, dicono… Dicono anche quello che, forse, molti pensano e si tengono per loro. Come quel tale che, alla faccia dei tanti anni di assenza dal piccolo schermo, mi chiede di ripetere “a la televisiù” quel che lui sta dicendo. E cioè che “in presenza di un casino come quello della guerra, si poteva fare uno strappo alla regola e rimandare tutto a tempi migliori”. Uno che l’ascoltava, evidentemente poco incline a simili divagazioni filosofico-pacifiste, lo ha gratificato con un “vaffa…” certo poco elegante anche se assai esplicativo degli umori “villici pedemontani” che si assiepano oltre quel tratto di transenne. In tanta “malora” risolleva gli animi il sano pragmatismo casalingo di una spettatrice che proclama non essere il caso di “mischiare latte e vino”.
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Passano cento, duecento, trecento e più “nobili espressioni della più alta e raffinata tecnologia automobilistica espressa tra il 1927 e il 1957”. Passano, ricevono applausi e creano, alla maniera di un qualsiasi prodotto che corre spedito verso un radioso futuro, un colossale anche se gioioso ingorgo. Qualcuno invoca la presenza di altri guardiani dell’ordine pubblico., cioè Vigili Urbani in aggiunta a quelli già comandati. L’ingorgo avanza, si dilata, si smorza e poi riprende vigore soprattutto nelle vie adiacenti al grande e lungo palcoscenico dal quale prende di nuovo il via la “Mille Miglia”. Addio, Piazza Vittoria, mi aspettano al Rebuffone bande di appassionati pronte ad immortalare su carta, pellicola, dischetto e quanto altro la tecnologia digitale consente, “sbuffi” e “performance” di auto “vecchie” eppur desiderate come “giovani e pure annunciatrici di bellezza e gaudio”; pronte a subire “sbroffi” di cielo capriccioso e, dunque, in linea con il suo passato. Dalle parti di Arnaldo uno striscione grida il suo “no alla guerra”; un altro attesta la presenza del “fans club team “vattelapesca”; un altro ancora proclama “viva la Mille Miglia”. Il filosofo Giovanni Gentile, nella “Teoria generale dello spirito come atto puro”, scrisse: “Mirate con fermo occhio a questa vera e concreta realtà che è il pensiero in atto; e la dialettica del reale vi apparirà evidente e certa come certo ed evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa”. Dalle mie parti, adesso, di chiaro, evidente e certo c’è soltanto il serpentone di automobili che da Brescia si muove alla conquista dell’Italia. Quanto all’aver coscienza di ciò che si pensa – e si scrive -, invoco le attenuanti di rito. La Mille Miglia, la corsa più bella, amata e chiacchierata del mondo, infatti, mi ha dato alla testa. Se potete, perdonate; se invece il virtuoso esercizio vi trova impreparati, passate oltre. Domani è già un altro giorno e nulla vieta sia migliore di quello appena concluso.
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Piazza Vittoria è, oggi come ieri, l’esempio più significativo di una assai poco gradevole concezione di spazio offerto al pubblico godimento. Certo, tutto quel che le è stato costruito dentro e attorno per la Mille Miglia, la rende unica. Ma dura un giorno; e domani sarà già come tutti gli altri giorni. Ieri, intanto, le operazioni di punzonatura (viene da pensare che ogni equipaggio venga impresso con un sigillo così da renderlo inconfondibile, ma in verità il punzone è, ormai, soltanto una delle tante virtualità affidate al computer) che hanno preceduto il via della corsa hanno trasformato la piazza in una sorta di caravanserraglio umano nel quale tutto e il contrario di tutto si mescola, attorciglia, si scioglie e si ricompatta per sembrare assolutamente vero. Invece, senza offesa per chi è convinto del contrario, da quelle parti, anche ieri, di vero, blasonato ed immutabile c’era soltanto lei, l’automobile. Un’automobile che, più “nonna” è, tanto più nobile, appetita, sognata e costosa ama mostrarsi; uno strumento da viaggio che, se con un artifizio degno della miglior scuola della magia, fosse possibile trasporlo ai tempi di Dante e della sua “Divina Commedia”, di certo meriterebbe di sostituirsi all’amata per apparire, lei e non altra donna, “tanto gentil e tanto onesta…, quand’ella altrui saluta”. Cioè, come si direbbe oggi, mentre sorpassa sfrecciando irresistibile verso la meta agognata. Gli umani, maschi e femmine senza alcuna distinzione, di fronte al mostro chiamato automobile, oggi come sempre sono soltanto attori: forse bravi (sebbene obbligati a recitare secondo copione), forse fortunati (sebbene venga loro chiesto di mettere in piazza quel che sono ed hanno), forse felici (sebbene la corsa esiga fatiche non indifferenti), forse anche invidiati (sebbene sia difficile capire di quale argomenti dovrebbe nutrirsi tale invidia).
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La quiete e serenità di cui la città si alimenta in quasi tutti i giorni dell’anno, con l’avvento della Mille Miglia sono fuggiti in soffitta per lasciare campo libero ad un cantiere nel quale si parlano quasi tutte le lingue del mondo e si vede ogni sorta di gesto scaramantico, anche i meno signorili. Un addetto alla manutenzione di una superba macchina inglese, così minuto e gracile da farlo sembrare più un residuato di sanatorio che un baldo costruttore di motori, di questi gesti scaramantici, ne ha messi in mostra una sequenza impressionante. Ognuno con un preciso riferimento: prevenzione dalla malefica influenza esercitata, secondo lui, da ogni camicetta, vestaglia, gonna o foulard aventi colori tendenti al viola pallidino (dominanti in una stagione di moda che li pone al centro dell’universo femminile); allontanamento degli spiriti ammassati, come i pipistrelli, sotto le gronde dei palazzi e tra le pieghe di tende e tendoni; tutela della propria identità culturale liberal-borghese in grave stato di avanzata compromissione a causa dei littori sentimenti architettonici che, a suo avviso, avevano ispirato gli inventori della piazza; annullamento degli effetti causati dal sorgere del sole; annientamento di ogni particella recante sintomi di raffreddore, febbre, diarrea, pubalgia, gastrite, orchite o quant’altro di logico appartenga alla scienza medica. Ad un certo punto, per imbonirlo e renderlo malleabile alle fatiche del vivere, l’ho tentato con l’unica profferta ritenuta compatibile al suo animus pugnandi. “Vi va di bere una coppa di spumante italiano?”, gli ho chiesto. E lui, di rimando: “Y love birra, very birra, tanta birra”. Da un inglese mi sarei aspettato di tutto, tranne che non apprezzasse l’ospitalità contenuta in un fresca coppa di spumante italiano. Anzi, franciacortino.
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Tra le pieghe della corsa più bella del mondo, ci è anche capitata la felice ventura di incontrare una classica bellezza mediterranea che, me lo ha detto proprio lei, per vivere la Mille Miglia non esita a ricucirsi intorno un adeguato spazio feriale. Esclusa l’ipotesi che fosse qui per cercare proprio me, restavano aperte tutte le ipotesi possibili ed immaginabili circa la sua collocazione temporale (in quale albergo, casa, palazzo, castello, stamberga aveva preso dimora?), circa la sua solitaria appartenenza ad una città non sua (possibile che un angelo di così raffinata bellezza potesse calare dal cielo senza adeguata scorta?) e in ordine alla fatale attrazione su di lei esercitata da una corsa che, sebbene nobilissima, non per questo era in grado di offrire degna compagnia ad una così adorabile visitatrice. Insomma, lei era troppo bella (una taglia quarantadue più o meno perfetta), troppo elegante, troppo di classe e troppo sorridente per essere arrivata e per rimanere sola a Brescia. Che fare? Appunto, che fare? Fu allora che una voce malignazza ed invisibile suggerì la risposta: “Figli della Leonessa d’Italia, ritiratevi; ritiratevi mentre il cielo ancora sorride e lei non ha ancora deciso a qual paese inviarvi”. Detto e fatto. Ma lei, bella e misteriosa, è rimasta…
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Fino alla vigilia, attorno alle piazze di una Brescia stranamente rilassata, sedute ai tavoli all’aperto dei tanti bar caffè ristoranti, si potevano incontrare le compagne (mogli, segretarie, accompagnatrici che dir si voglia) momentaneamente abbandonate dai piloti e copiloti impegnati nella messa a punto finale dei loro potenti mezzi. Due di loro le ho sentite parlare di “Historiche Wagen” (macchine storiche), e di “Herren Mechaniker” (signori meccanici). E fu proprio quel “Herren Mechaniker” (signori meccanici), a stupirmi. Voleva dire, infatti, che non di semplici aggiustatori o accomodatori di auto si trattava, ma di rispettabili signori – professionisti di industria e di finanza, blasonati rappresentati del bel mondo d’oltralpe, attori, principi, conti: chi lo sa? – che esaltavano, per un giorno, la professione del meccanico. Alla punzonatura e al via della corsa, però, non s’è vista traccia di “Herren Mechaniker”. Lì abbiamo invece visto sempre e soltanto tanti “Herren”, eleganti e levigati come solo i signori sanno esserlo.
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Su di un viale alberato e famoso come pochi altri, ho visto incolonnate, pronte a partire per il giro d’Italia più affascinante che mai sia stato pensato e proposto, centinaia di automobili da sballo (nel senso di appetibili e belle). Mi hanno spiegato che, tutte insieme, valgono, più o meno, un “pil”, (cioè l’ammontare del prodotto interno lordo di un ‘ipotetica nazione). Secondo Elias Canetti, poeta sconsigliato ai palati deboli, “i poveri arriveranno in paradiso cinquecento anni prima dei ricchi”. Non è granché. Però, insomma, è sempre meglio di niente.
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Bruno Boni, il mitico professore che alla matematica pura ha sempre chiesto il lasciapassare per iperboliche galoppate nella filosofia – galoppate che adesso egli fa tra le nuvole, sempre sia vero che il Paradiso dei giusti si distende proprio da quelle parti – spiegava spesso agli amici disposti ad ascoltarlo e a pendere dalle sue labbra, la sostenibile leggerezza di tutto ciò che, essendo gradito, non imponeva alcuna fatica. A Renzo Castagneto, uno dei padri della Mille Miglia, una volta Ciro spiegò che le pretese fatiche organizzative legate alla corsa più bella del mondo non potevano essere considerate tali per il semplice motivo che tutto quell’agitarsi attorno a strade, permessi, piloti, macchine e motori sapeva molto di gioco e assai poco di lavoro. “Se questo è un gioco – ribatté il vecchio Renzo – allora che cosa è la politica?”
Manuel Vigliani e Bruno Marini, testimoni dell’episodio appena citato, a noi giovani dell’ultima ora ed era giornalistica, spiegarono che Boni ci mise tre secondi per organizzare quella che sembrò non tanto una giustificazione, quanto piuttosto una lezione sull’essere e il divenire di un sindaco. “Un sindaco – disse Boni – è un capolavoro di ingegneria al cui confronto le vostre automobili scompaiono e si annullano. Egli è, al tempo stesso, progettista, guida, motore, carrozziere, volante, volano, ruota, freno, fanale, acceleratore e da solo può far girare a pieno ritmo una città. Con il consenso della gente e qualche briciola di potere, egli bonificherà le paludi e dove ci sono rovine edificherà case, scuole, chiese e strade. Dategli spazio e vi solleverà dalle preoccupazioni; dategli farina e vi restituirà pane; dategli la Mille Miglia e la trasformerà nella corsa più bella del mondo…”.
Una volta, però già nel tempo della “Mille Miglia” storica, mentre lui si deliziava nell’alzare ed abbassare la bandiera a scacchi davanti ai concorrenti in partenza, gli buttai tra i piedi una provocazione che, data la sua ritrosia alla guida, voleva anche essere un’amicale presa per i fondelli. “Sarebbe perfetto alla guida di una di queste automobili”, mi scappò di dirgli. “Di sicuro – mi rispose serio e fiero – esalterei la professione di pilota”.
Non scherzava il buon “Ciro”. Era cioè intimamente convinto che in qualunque “azione-lavoro-professione” si fosse trovato, si sarebbe elevato al di sopra della media. Forte di questa convinzione, a chi lo voleva seduto su un scranno del Parlamento (“per il bene della città deve andare a Roma” gli dicevano alcuni “democristi” che mal sopportavano la sua lunga ombra) Boni mandò a dire: “O Cesare o nulla”. A chi, invece, dopo il tragico incidente del 1957 – quello che decretò la fine della corsa più bella del mondo – gli chiedeva di adoperarsi al fine di chiudere la Mille Miglia in un circuito protetto, rispose: “Se il palcoscenico della corsa non può più essere quello rappresentato dall’Italia intera, è meglio calare il sipario”. Per rispondere a chi lo accusava di aver ceduto troppo in fretta alle ragioni di chi insisteva nel definire la Mille Miglia “pericolosa e non più giustificabile”, neppure nel nome dello sport o del progresso della tecnica, usò un teorema che il suo amico e filosofo Emanuele Severino aveva abbozzato nel 1958 all’interno di un saggio intitolato “La struttura originaria”, dove l’originario – il destino di ogni essente – era inteso come “chiarore che tutto illumina”. Secondo il Boni-Severino pensiero, “poiché il diventare altro è impossibile, ogni essente è un eterno”. La Mille Miglia, in altre parole, non poteva diventare altro essendo eterna la sua originaria filosofia.
Esagerato? Se del fu “Governatore” della città si contano soltanto le parole, sì; se invece alle parole si aggiungono i fatti, allora nulla è esagerato. Per esempio: non è mai stata “esagerata” la fiducia che padre Ottorino Marcolini, il grande costruttore di case e villaggi per la gente più povera, ha riposto nel “suo” sindaco. “Io so bene – diceva il prete ingegnere – che costruendo case e villaggi secondo i bisogni della gente piuttosto che sulla base di piani definiti, obbligo il Comune ad assumersi impegni superiori alle sue capacità; ma sapendo che in Loggia c’è uno che conosce bene i problemi e i bisogni della gente – uno come Boni, per intenderci – io costruisco e disegno villaggi ben sapendo che, subito dopo o insieme, arriverà anche la mano pubblica”.
E mai esagerata fu la fiducia che qualcuno ripose in Bruno Boni quando si trattò di riaprire quel sipario a suo tempo calato sulla “magnifica” Mille Miglia. “Ciro” disse semplicemente che Brescia meritava di specchiarsi nel suo passato automobilistico secondo modalità coniugabili con le esigenze del tempo. Così prese vigore l’idea di una “Mille Miglia Storica”, una passerella lunga quanto mezza Italia sulla quale far sfilare le “care, vecchie e adorabili auto nonne”.
Anche quest’anno come da tanti anni, sul palco del fu Viale Rebuffone, Bruno Boni non ci sarà. Egli, infatti, riposa in pace all’ombra di odorosi cipressi e contempla, dall’alto, virtù e vizi di una corsa che, nonostante tutto, continua ad essere “la corsa più bella del mondo”. L’unica alla quale il “poeta muto” non farà mai mancare il suo cantico di gioia.
LUCIANO COSTA
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AVVISO IMPORTANTE
Per motivi tecnici “bresciadesso” si prende cinque giorni di vacanza. Da qui la prolissità del pezzo odierno, che se spezzettato condirà i giorni che verranno. La ripresa è fissata per domenica, con il solito o insolito “domenicale”. Buona vacanza a “bresciadesso” e buona “Mille Miglia” a tutti voi.