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Rinunciare tutti a qualcosa…

Marco Bencivenga, bresciano e per molti anni caporedattore di “BresciaOggi”, da un anno e mezzo è il direttore della “Provincia di Cremona”, il quotidiano storico della città. Nell’ultima sua “nota” domenicale ha messo in evidenza i difetti di chi piange i danni da Covid pur sapendo che non altri ma lor medesimi lacrimanti son i primi colpevoli. “Bresciadesso” volentieri condivide il suo editoriale.  

Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha chiesto al Governo di proclamare un nuovo lockdown nazionale perché – ha ammesso – la sanità della sua Regione non è in grado di gestire la seconda ondata della pandemia. Al netto del suo discutibile stile comunicativo – un mix di intransigenza e vittimismo, minacce esagerate e strambe citazioni, tanto che ormai è difficile distinguere l’originale dalle imitazioni – De Luca dovrebbe fare un po’ di sana autocritica, prima di chiedere la quarantena per l’intero Paese. Se la sanità campana non funziona non è colpa del Governo o delle altre Regioni, ma di chi l’ha gestita male negli ultimi cinquant’anni. Cioè lui. E i governatori che l’hanno preceduto. Per farsene un’idea basta leggere l’ultimo Report realizzato dall’istituto di ricerca Demoskopika. Secondo l’Ips (Indice performance sanitaria) che emerge dallo studio, la Campania è la seconda peggior Regione d’Italia nella classifica dell’inefficienza sanitaria con 91,6 punti (contro i 107,7 del Trentino Alto Adige, la regione più virtuosa, e gli 89,1 della Calabria, la maglia nera), un indice di soddisfazione dei cittadini pari a 15,1 (contro il 53,2 del Trentino) e il più alto costo pro capite per il management sanitario (12,1 euro, contro l’1,7 del Molise).

Non bastasse, la Campania spende oltre 300 milioni di euro all’anno per garantire i ricoveri nelle strutture di altre regioni ai propri cittadini insoddisfatti delle cure ricevute «in casa» (in media il 10,7% degli italiani residenti al Sud si fa ricoverare fuori Regione. In genere in Lombardia, primatista dell’«import» sanitario con quasi 200 mila ricoveri all’anno. Solo una statistica? No, un problema sostanziale, visto che il Report assegna ai campani la minor «speranza di vita» dell’intera penisola: 81,1 anni, contro gli 83,8 dei trentini. Ballano oltre due anni e mezzo, anche se naturalmente non è solo colpa della sanità che non funziona. Tutto questo prima della pandemia, che nel 2020 ha ridotto drasticamente tale «speranza» a ogni latitudine. Per quanto appena rieletto a furor di popolo, De Luca non ha dunque grandi titoli per salire in cattedra e dettare la linea agli altri.

Però, un merito gli va riconosciuto ed è il grande impegno che ci mette nella lotta al Coronavirus, anche se – come ha giustamente osservato Massimo Gramellini sul Corriere di ieri – da un presidente di Regione ci si attende che faccia funzionare gli ospedali dotandoli degli adeguati posti in terapia intensiva, non che spaventi i cittadini mostrando in tv le lastre dei polmoni di un malato Covid o minacciando di usare il lanciafiamme. De Luca è al tempo stesso un impavido capopopolo e un facile bersaglio degli oppositori: è bastato che ordinasse alcune limitazioni sul modello della Lombardia, a partire dal coprifuoco serale, perché venerdì sera un migliaio di napoletani mettesse a ferro e fuoco la città, con una manifestazione di protesta incendiaria al grido «Libertà! Libertà!».

 Un segnale particolarmente allarmante non solo per la Campania, ma per la tenuta sociale dell’intera nazione, ora che la pandemia torna a farsi sentire sul piano economico, oltre che a livello sanitario. Un nuovo lockdown indiscriminato metterebbe in ginocchio numerose attività economiche e brucerebbe milioni di posti di lavoro che nessuna cassa integrazione e nessun reddito di cittadinanza sarebbero mai in grado di compensare. Per questo, una chiusura a tempo delle città – per quanto scioccante – sarebbe tutto sommato preferibile a un blocco totale. Meglio chiudersi in casa già a partire dalle 18.30, a costo di cambiare abitudini di vita e rinunciare a svaghi e tempo libero, che condannarsi a sei mesi di quarantena, ognuno nella propria cella, dandosi appuntamento alla prossima primavera. Insieme all’emergenza sanitaria, in questo momento lo stop assoluto è il rischio più grande per il Paese, in un contesto che vede i vertici di Confindustria minacciati di morte e costretti a vivere sotto scorta solo per aver ricordato al Governo le esigenze di chi con la propria attività alimenta il Pil nazionale e, con esso, garantisce la sostenibilità dell’intero sistema economico, dalle pensioni al fisco, da welfare ai servizi pubblici essenziali. Spesso, chi invoca «libertà» dimentica che anche la libertà ha un prezzo. O non è disposto a pagarlo.

In fondo, perché stupirsi? Da sempre siamo l’unico popolo al mondo che infrange le regole della fisica e della matematica: per gli italiani un metro non è sempre lungo 100 centimetri, ma può essere di 90 o di 110, in base alla necessità. In tempi normali è la nostra forza, l’elasticità rappresenta un valore aggiunto, come l’arte di arrangiarsi e di improvvisare, per risolvere un problema e andare oltre; in tempi di pandemia, al contrario, diventa un limite, perché alimenta l’eccezione, il distinguo, l’interpretazione di comodo di norme e divieti. Per evitare la diffusione del contagio bisogna restare in casa? Giusto!, dicono (quasi) tutti. Solo se il divieto di uscire riguarda gli altri, però. Io ho il cane, che ha bisogno di uscire a fare la pipì; io devo andare a correre, perché me l’ha ordinato il medico, e io ho diritto a un lasciapassare perché ho un «affetto stabile» aldilà del ponte. Diciamo la verità: noi italiani siamo i più grandi creatori di alibi e di scuse, pur di eludere un divieto. Quasi imbattibili.

Eppure durante il lockdown di primavera la paura di morire si era dimostrata più forte perfino della nostra furbizia e dei nostri egoismi. E ci aveva fatto rispettare le limitazioni anti contagio imposte dal Governo. Nella stragrande maggioranza dei casi fra marzo e giugno siamo stati bravi, rispettosi e responsabili. I problemi iniziano adesso, perché nella percezione collettiva la seconda ondata non fa paura come la prima, ma non è meno rischiosa. Certo, otto mesi fa i medici erano impreparati e ora invece sanno come trattare la malattia. Ma non è una grande consolazione, perché gli specialisti sono i primi ad ammettere che se il numero dei ricoveri in terapia intensiva supererà un certo limite (2.300 in tutta Italia e siamo già a 1.128) l’intero sistema sanitario andrebbe al collasso, non solo in Campania.

Se l’estate ci aveva illuso di esserci messi la tempesta alle spalle, restituendoci un po’ di libertà mentre la curva dei contagi scendeva fin quasi a zero, l’autunno ci riporta tutti con i piedi per terra. Parafrasando Salvini, la pacchia è finita. Con i primi freddi e il calo delle attenzioni (un aperitivo in compagnia? Che male c’è… Una partita a calcetto? Nessun problema, tanto faccio la doccia a casa… In tanti sul bus o sul treno? Nessun rischio, tanto ho la mascherina…), l’indice Rt è tornato a salire e, complice l’aumento dei tamponi, la curva dei «positivi» è schizzata vertiginosamente verso l’alto. Per fortuna, finora l’ululato delle ambulanze resta in sottofondo. Finora. Rinunciare tutti a qualcosa è l’unico modo per evitare che torni a essere l’unica colonna sonora di città deserte e spettrali. Come la scorsa primavera. Ne vale decisamente la pena.

Marco Bencivenga

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