Quel magnifico pianista che ieri sera a Ponte di Legno, tra montagne bellissime e ospitali, ha chiuso il concerto con una delicatissima “ninna nanna” dopo aver regalato emozioni tratte da Bach, Mozart, Schubert, Chopin, Handel e Brahms era l’emblema di un mondo – quello dei profughi, dei fuggiaschi, dei cercatori di libertà, dei richiedenti asilo, insomma dei migranti, perché questo è il loro status -, che pretendiamo di conoscere e che invece sfugge ancora a qualsiasi conoscenza. Il magnifico pianista, forse il più grande esecutore mondiale delle opere di J. S. Bach, è venuto da lontano, dall’Iran, portando con sé una di quelle storie che sembrano inventate per stupire e che invece sono semplicemente vere. Il pianista si chiama Ramin Bahrami, nato nel 1976 a Teheran e a soli 11 anni, insieme alla famiglia, a causa della rivoluzione degli ayatollah, fu costretto a fuggire per cercare una patria in cui credere e dove sentirsi libero. Trovò ospitalità in Germania, paese d’origine della nonna materna, ma fu a Milano, al Conservatorio Giuseppe Verdi, che abbracciò la musica scegliendo il pianoforte come voce narrante della sua passione. Ramin Bahrami, lasciandosi guidare dall’umiltà dell’esule, ha scalato le vette del sapere musicale diventando l’ideale raffinato e ricercato esecutore, certo del sommo J. S. Bach, ma anche degli altrettanti magnifici compositori di un tempo andato e per fortuna mai dimenticato.
Ieri sera, appena prima del concerto, invitato a spiegare la sua predilezione per Ponte di Legno, Ramin s’è appellato alla bellezza delle montagne e al sapore ineguagliabile dell’accoglienza di cui esse sono custodi. Poi, gettando lo sguardo alla sua terra d’origine e alla sua storia di esule, ha lasciato spazio alla commozione: un attimo, soltanto un sospiro, poi la cascata di note, prese a prestito per rendere omaggio alla vita, ha compensato ricordi ed emozioni.
Ho allora associato il pianista venuto da lontano portando sulle spalle il titolo di esule al mondo degli esuli tuttora in cerca di patria e accoglienza. Mi sono chiesto: quanti di loro vivranno, impareranno, diventeranno protagonisti del futuro? Uno di loro, albanese, arrivato tra noi trent’anni fa a bordo di una nave stracarica, è diventato medico e oggi si occupa di ricerca contro i tumori. Una volta mi ha raccontato il suo peregrinare in cerca di terra da abitare in libertà. Quella storia è adesso al centro della cronaca che ricorda quel che è accaduto un giorno di agosto dell’anno 1991, quando anch’io, davanti a una telecamera di provincia, cercavo di offrire scampoli di riflessioni da usare per comprendere un exodus così improvviso e così urlante il bisogno di un nuovo umanesimo planetario. Quel giorno registrava il più grande sbarco di migranti mai giunto in Italia con un’unica nave: ventimila persone stipate, un groviglio umano mai visto, ventimila storie di uomini donne e bambini che reclamavano di essere ascoltate.
Trent’anni ci separano da quello sbarco: chi può ricorda, gli altri passano oltre e, come sempre, “i giovani non sanno quello che i vecchi hanno già dimenticato”. Era l’8 agosto del 1991 e l’Italia viveva il clima vacanziero di piena estate. Quel giorno 20.000 albanesi arrivarono al porto di Bari, mettendo in crisi procedure e strutture deputate alle emergenze. “All’origine del loro disperato atto di forza – ha scritto il cronista – quel che era accaduto il giorno precedente, quando la nave mercantile Vlora, di ritorno da Cuba carica di zucchero di canna, durante le operazioni di sbarco nel porto di Durazzo, era stata assalita da una folla composta da migliaia di persone disperate e in fuga dalla miseria imposta dal regime. Quei ventimila disperati saliti a bordo costrinsero il comandante della nave a salpare per l’Italia e ad attraccare a Bari il giorno seguente. L’ingresso in porto non fu dei più facili. Il comandante forzò il blocco comunicando di avere feriti gravi a bordo e di non poter dare il “macchine indietro”, il comando di retrocessione, a causa del grande carico. La nave fu quindi fatta attraccare al molo più distante dalla città…”. Ad attendere la nave c’erano cronisti e televisioni. E proprio le televisioni registrarono, durante l’entrata al porto, i molti che si gettavano dalla nave ancora in movimento per nuotare fino alla banchina cercando una via di fuga…
Prima di quel giorno, a marzo 1991, nel giro di tre notti erano già arrivati migliaia e migliaia di albanesi a Brindisi. “In quel momento – ha scritto un testimone – si è vissuta davvero la sorpresa di un’Europa che si era lasciata alle spalle la disperazione dei profughi della Seconda guerra mondiale e che guardava in faccia altra disperazione. Tra la sorpresa di tutti, centinaia di persone vagavano nella città deserta per ferie…”. Però, già il mattino seguente, si mosse la macchina della solidarietà “perché la gente apriva le sue case, le sue abitazioni e quegli esuli in fuga li faceva entrare e li faceva mangiare, li faceva lavare e dava loro quel primo aiuto iniziale fondamentale per farli sentire esseri umani”.
La vicenda della nave Vlora è ricordata come l’episodio più significativo dell’ondata di immigrazione che si è avuta in Italia negli anni Novanta ma anche come l’inizio di un processo “virtuoso” nella storia recente dei flussi migratori che riguardano l’Europa. Infatti, il caso dell’Albania rappresenta storicamente un esempio positivo di sviluppo, iniziato con un esodo ma poi evoluto in un cammino fatto di aiuti esterni e di stimoli interni che ha portato a un livello di buono sviluppo della società e dell’economia. In quei giorni di emergenza l’Italia promise all’Albania significativi aiuti umanitari… Poi, l’8 agosto, la seconda ondata di sbarchi, non solo chiedeva gli aiuti promessi ma ne sollecitava di nuovi. “Gli albanesi sbarcati dalla Vlora, ad eccezione di alcuni sfuggiti in città alle forze dell’ordine, furono riuniti nello stadio di Bari. Quindicimila furono ricondotti in patria. Allora – si legge n elle cronache – l’Italia inviò un cospicuo contingente dell’esercito che si impegnò nella distribuzione di generi alimentari e nel controllo delle coste. Solo nella prima fase dell’operazione i soldati italiani consegnarono 186.000 tonnellate di viveri e medicinali in 27 centri dislocati in ogni regione per essere poi distribuiti anche nei villaggi più sperduti”.
L’Albania ha dimenticato gli orrori della dittatura e vive tempi nuovi. “Ma quello che vive in quei luoghi –mi ha spiegato un medico imprestato alla sanità albanese – è sempre un popolo dolente”. Nella sala Paradiso dell’Hotel Mirella di Ponte di Legno, mentre Ramin Bahrami estasiava il pubblico suonando Bach, Mozart, Schubert, Chopin, Handel e Brahms, in attesa di dare seguito alle emozioni musicali opportunamente condite con la cascata di stelle che avrebbe onorato la notte di san Lorenzo, pensavo alla sua storia e alla storia di mille e mille altri esuli come lui. E ancora una volta la musica diventava medicina per il cuore e per la mente…
LUCIANO COSTA