Discutere di clima, di terra sconvolta, di futuro incerto a causa di sbadataggini sesquipedali messe in mostra da governanti con pochi scrupoli a cui interessa molto contare ricchezze e assai poco compiere azioni virtuose a favore della madre terra; misurare la volontà di ricominciare e vedere che solo qualcuno è pronto a mettersi in cammino; osservare mille pale eoliche muoversi in sintonia e scoprire che sono una goccia nel mare dei bisogni energetici; contare centomila, forse un milione o anche tre milioni o più di ragazzi e giovani che gridano la loro visione di terra pulita, di atmosfera respirabile, di acque limpide, di campi coltivati senza violentare la loro vocazione a produrre; leggere che attorno al vertice per discutere e decidere misure adatte a ridurre l’inquinamento si sono mossi decine di macchine volanti fatte apposta per inquinare; ragionare sugli eccessi a cui ubbidiamo e ai quali non siamo disposti a rinunciare per dire “dobbiamo metterci una pezza” pur sapendo che di pezze in circolazione non ce ne sono più…
Ho ascoltato il grido della Greta arrabbiata e delle Grete che la seguono, ma poi anche il silenzio di Greta che insegna ai bambini come non consumare acqua e delle Grete che non gridano ma che fanno a gara per non buttare neppure una briciola di ciò che madre terra mette a disposizione. Una giovane studentessa mi ha chiesto se e come sia possibile parlare di salvaguardia del creato evitando di tirare in ballo la solita Greta che il mondo gira e sconvolge. Le ho risposto che se, tanto per incominciare, io e lei mettessimo in pratica la regola del non sprecare avremmo già avviato la salvezza mondo. Invece, magari senza alcuna cattiva intenzione, siamo anche noi dentro la cultura dello spreco.
Allora ho pensato, e purtroppo mi son reso persuaso, che non è questione di G20 o di COP26, di Roma o di Glasgow, ma di voglia di cambiare, qui e adesso, il modello di sviluppo che ci sovrasta e ci spinge a fare esattamente il contrario di ciò che le regole per la salvaguardia del creato esigono. Allora domando: chi è disposto a rinunciare all’uso smodato dell’automobile e dei marchingegni che per funzionare esigono sprechi tanto assurdi quanto insostenibili alzi la mano?… Vi risparmio la visione di gente che le mani le usa non per condividere la preoccupazione, bensì per reggere l’infinita gamma di marchingegni che per funzionare richiedono energia che per essere prodotta richiede altra massiccia dose di energia che per produrre energia consuma ragguardevoli quantità di aria e acqua. Se vi sembra un gioco di parole messo lì per rincorrere la solita morale della favola (quella che predica bene e razzola male), avete ragione. Ma, vivaddio, questa spiccia morale che chiede parsimonia, moderazione, rispetto, attenzione, intelligenza, creatività e limpidezza di azioni è l’unica che scavalca il muro di indifferenza che circonda le azioni virtuose (ancora di pochi) e che dice “muoviamoci e facciamo prima che sia troppo tardi”.
Oltre Roma e Glasgow, oppure dentro Roma e Glasgow, c’è però il problema dei problemi: gente che non ha il minimo necessario per sfamarsi, per curarsi, per dissetarsi, per istruirsi… Leggo nel rapporto pubblicato l’altro ieri dal PAM (Programma Alimentare mondiale) che la piaga della fame colpisce sempre più persone nel mondo. “Negli ultimi due anni – hanno scritto i ricercatori – il numero di chi soffre di malnutrizione è passato da 29 milioni a 45 milioni”. Le ragioni di questo drammatico incremento sono molteplici. In particolare, l’aggravarsi dell’insicurezza alimentare può essere attribuito al maggior numero di conflitti e ai sempre più ricorrenti effetti della crisi climatica, che minano i mezzi di sussistenza delle famiglie. A questo si aggiunge la pandemia causata dal Covid-19. Nel rapporto è evidenziato che “la situazione è in rapido peggioramento in ben 16 Paesi in Africa, 4 in America Centrale e 3 in Asia”. Se interessa, ma deve assolutamente interessare, i casi più gravi sono stati riscontrati in Afghanistan, Etiopia, Haiti, Somalia, Angola, Kenya e in Burundi. Oltre a questo risulta che nel numero di affamati circa 5,7 milioni sono bambini sotto i cinque anni, oltre il 50% in più rispetto al 2019. Secondo gli esperti del PAM le risorse disponibili non sono in grado di tenere il passo con la domanda. E questo lascia intendere che da una situazione di crisi e di emergenza si possa passare a breve ad una immane catastrofe umanitaria.
Nonostante questo desolante panorama un terzo della produzione mondiale di cibo finisce ogni anno nei rifiuti, 462 milioni di persone che non dispongono di cibo quotidiano sono considerate “persone sottopeso”, due miliardi di uomini e donne che di cibo ne hanno in abbondanza sono generalmente obesi e tre miliardi fra gli abitanti del Pianeta si nutre di cibo di scarsa qualità, che è poi causa diretta di obesità congenita, malattie, ritardi cognitivi.
Che fare? Innanzitutto servirebbe la buona volontà di imprese e governi nel garantire l’accesso al cibo sano, cioè preservato dall’inquinamento; subito dopo diventa indispensabile attuare “sistemi alimentari che proteggano il pianeta” rivedendo il sistema della produzione agricola e degli allevamenti intensivi, adatti alla superproduzione ma assai meno all’ambiente; infine, ma soprattutto, serve la volontà di tutti gli umani, di quelli che vanno a Roma o a Glasgow per chiedere misure di contenimento all’inquinamento e agli abusi, ma anche di coloro che pur rimanendo a casa fanno il possibile per sostenere il diritto – mio e vostro – di respirare aria pulita.
LUCIANO COST