Sanremo è Sanremo, ma il buon gusto è altrove

Non sono un appassionato di Sanremofestival e i suoi gargarismi canori, al pari dei parolismi Aristonintonati e dei giramondo in libera uscita che lì arrivano per miracolo mostrare e guadagnare la pagnotta, mi lasciano indifferente. Però, tutto o quasi tutto ciò che accade qui lì e altrove gode del mio interesse. Vale a dire: seguo la cronaca, leggo la cronaca, mastico la cronaca e a mia volta sforno quotidiane cronache e le propongo come opinioni, forse anche riflessioni, di sicuro dopo averle pensate e misurate alla luce di una storia di scrittura (tutta mia) che dura da esattamente da sessantadue anni. Così, non potendo immunizzarmi dal virus che vien dalla riviera accompagnato da fiori sempre belli e che i suoi effetti li fa sentire tre mesi prima dell’appuntamento e li esaurisce, se li esaurisce, tre mesi dopo (c’è infatti sempre chi torna sistematicamente e caparbiamente a proporli in salsa a lunga conservazione) o mai dato che finito uno incomincia l’altro, subisco l’onda prodotta dalla comunicazione parlata scritta sussurrata e stupisco per come quell’informazione sbiadita, consumistica e tutt’al più buona pe far solletico ai piedi – pane obbligatorio per molti, troppi – diventi vissuto quotidiano.

Così, leggendo, guardando e curiosando (ieri ho contato dieci canali televisivi e almeno il doppio radiofonici che contemporaneamente sbrodolavano Sanremo) ho appreso tutto quel che avevo evitato di apprendere tenendomi alla larga dal caravanserraglio canoro sanremese. Per esempio, ho saputo che Fiorello (una sorta di re Mida dello spettacolo capace di trasformare tutto ciò che tocca in oro), ha rallegrato, deliziato e provocato, come solo lui sa fare, riuscendo perfino a far sorridere sulla scena offerta da un cantante forse spiritato o forse soltanto preoccupato di non lasciare il segno, dicendosi curioso di sapere che cosa al proposito avrebbero detto quelli del Vaticano…

Se le cose stavano così, la faccenda era seria. Tanto seria che, guarda un po’, la risposta del Vatican non s’è fatta attendere. “Chiamati in causa da Fiorello alla cui simpatia non si può resistere – hanno scritto su “L’Osservatore Romano”, quotidiano della Santa Sede -, eccoci qui a dire la nostra, come richiesto, su Achille Lauro. In punta di piedi. Perché Sanremo è Sanremo. L’Osservatore è L’Osservatore. E in questo caso si limita ad osservare che, volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta”.

Vi risparmio commenti su altre cose sapute e messe in archivio senza troppi riguardi. Però, la cronaca-commento di qualcuno che ritengo degno di tale compito mi ha anche informato e tuttora mi informa di ciò che la città di Sanremo, sicuramente più importante di qualsiasi festival che porta il suo nome, deve sopportare a causa di sette note che si rincorrono sul pentagramma tra mimose e fiori freschi. Una di queste cronache-commento, scritta dalla “clinica mobile Ariston” dice che quello in corso “è un Festival che segue le leggi nazionali, quindi, super green pass e mascherine Ffp2. Però, nessuno tocchi gli artisti che, come la passata edizione, se ne stanno rintanati nelle loro suite, a distanza di sicurezza da tutto e tutti, onde evitare ogni possibile contagio. E’ lo stato libero della canzonetta che vive da repubblica a sé, mentre un comune cittadino, se entra a fare shopping in un negozio o a mangiare in un ristorante deve essere vaccinato e dotato di green pass, per cantare sul palco ci vogliono orecchio e una buona canzone e basta”. Infatti, almeno secondo le regole che girano tra le scene e gli alberghi “la selezione degli artisti sul palco non può essere dirimente distinguendo vaccinati e no vax: si tratta di dati sensibili…”. Però, al pubblico necessario per riempire tutti i posti del teatro festivaliero viene chiesta la certificazione obbligatoria. Solita manfrina all’italiana o deroga utile a qualcuno?

Inutile manfrina, invece, quella messa in circolo dall’aiuto conduttore della prima serata, quella Ornella Muti, bellissima a suo tempo e ancora bella adesso, lanciata per dire “alla maniera di Marco Pannella e dei Radicali liberi del secolo scorso, il suo personale sì alla cannabis”. Visti alcuni precedenti che riguardano parentele dell’attrice, era forse il caso tacesse. Ma, si sa, le luci accese danno alla testa e la testa, a quel punto, va dove vuole e dove le permettono di andare i distratti funzionari Rai.

Per il resto, alti e bassi compresi (bello il siparietto cantato, i cui contorni ho appreso dal cronista-commentatore stanziato a Sanremo, offerto da Checco Zalone sul “poco ricco”) la Rai “incassa le critiche, e intanto si frega le mani per gli ascolti record della prima serata, la più vista da 17 anni in qua…”. Da qui a sabato, giorno conclusivo del festival sanremese, di sicuro ne vedremo delle belle e anche delle brutte. Magari di nuovo un cantante (senza genere, per favore), forse spiritato o forse preoccupato di non lasciare il segno, che s’inventerà l’inventabile pur di apparire per quel che non è: un semplice cantore di canzonette, appunto. Ovviamente resta il rischio del credersi un di più dentro un palco fatto popolato da tanti di meno. “Come capitò allo strampalato prete bandito del Marchese del Grillo, l’indimenticabile don Bastiano di Flavio Bucci, il quale, fiero del suo supposto potere, si dava lui stesso l’assoluzione essendo chiaro che lui e solo lui diceva messe, comunicava, battezzava, consacrava, confessava, sposava… e se un giorno o l’altro gli girava la capoccia si faceva anche vescovo”. Però, attenzione: passare dalla provocazione al grottesco è un attimo. E non sempre è qualcosa di ben fatto.

LUCIANO COSTA

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