Maria ha 20 anni, i capelli biondi e un maglione a collo alto bianco. Stava seguendo una lezione di polacco nel Centro per accoglienza profughi dell’Unhcr, una delle tante lezioni che ogni 30 minuti si svolgono in questo piccolo spazio allestito con moquette e mobili bianchi Ikea alla periferia di Rzeszóv, cittadina del voivodato della Podkarpackie (Polonia). È qui che è iniziata ieri la missione di un gruppo ristretto di giornalisti di varie nazionalità che, organizzata dalle Ambasciate presso la Santa Sede di Polonia e Ucraina, prosegue nei prossimi giorni a Kiev e altre città ucraine.
Maria, prima di intervenire, ha ascoltato le storie dei compagni di classe che hanno voluto condividere frammenti di una vita in cui è irrotta brutalmente la guerra. Yulia, in fuga da Mariupol, trascinata dalla figlia ventenne in Polonia, che vorrebbe tornare in Ucraina ma non può “perché non ho un posto dove andare”. Tatiana, informatica, partita da sola con due figli piccoli da Odessa perché non voleva che interrompessero gli studi. Paul, unico uomo tra i banchi, in vacanza a fine febbraio scorso a Zanzibar, con moglie e figlia di 13 anni. La loro casa era nel Donetsk: “Non siamo mai più tornati, con le valigie delle vacanze siamo venuti in Polonia”.
Maria ha alzato la mano e ha chiesto in inglese di poter raccontare brevemente la sua storia: “Però voglio scriverla”. È la storia di una dei 4 milioni di profughi che hanno varcato in questi nove mesi il confine piccolo e poco conosciuto di Rzeszów. Dove, dicono le autorità locali, ora che è iniziato il freddo che penetra le fibre dei vestiti e dopo la distruzione di numerose infrastrutture energetiche, si attende l’arrivo di “una seconda ondata”. Almeno due milioni.
La giovane spera che in questo flusso ci possano essere anche la mamma e il fratello, rimasti a Kiev. “Non vogliono lasciare la loro casa. Grazie a Dio – si legge nel foglio strappato dal quaderno – tutti i miei parenti sono vivi e al sicuro, ma abbiamo tutti combattuto per la mancanza di elettricità ed è diventato veramente duro rimanere in città. Per questo ho deciso di venire in Polonia. Vivo con mio padre e la sua famiglia”. La ragazza desidera “ritornare appena la situazione migliora”, anche perché “qui la cosa più difficile è trovare un buon lavoro e pagare gli affitti”. Si dice comunque grata “per l’ospitalità del popolo polacco”.
Ospitalità che, come riportano esperienze e testimonianze dei rappresentanti di Croce Rossa, Caritas e altri comitati, realtà diocesane e associazioni (una su tutte, la Profil che garantisce percorsi di psicoterapia a donne vittime di stupro e violenze), sembra essere stata enorme in questi mesi di guerra. Un grande mosaico dell’accoglienza in una città di nemmeno 2 milioni di abitanti dove sembra che non si sia mai completata la ricostruzione post comunismo.
Per la gente proveniente dall’Ucraina – il cui “obiettivo non è abbandonare il Paese, ma sopravvivere”, come commentano funzionari locali – sono stati allestiti centri accoglienza e raccolti mezzi finanziari per aiuti umanitari. “Oltre 50 milioni di zloty (circa 10 milioni di euro)”, spiega il presidente della Regione Wladyslaw Ortyl. Li hanno impiegati per cibo, abiti, prodotti per l’igiene, ma anche per guardare al lungo periodo e garantire sostegni finanziari ad attività imprenditoriali di singoli e società. Sia per trasferirle dall’Ucraina, sia per avviarle direttamente in Polonia.
Con queste somme si cerca pure di realizzare iniziative per i più piccoli. Ieri, ad esempio, per la festa di San Nicola, tradizionale festività nei Paesi dell’Est Europa, da Podkarpackie è partito un camion carico di giocattoli, dolci, zaini e altri oggetti per la scuola. La destinazione è Žovkva, nell’oblast di Leopoli; i destinatari circa 600-700 bambini tra profughi, orfani, disabili, lì sistemati e assistiti dalle domenicane. Le religiose, in testa la superiora suor Mateusza, hanno “bussato insistentemente” alle porte della Croce Rossa per far sì che il conflitto non risucchiasse nel vortice di orrore anche la tradizionale festività e i piccoli profughi di Leopoli potessero celebrare serenamente il loro patrono.
Con Leopoli, separata da Rzeszów da meno di 170 km, i contatti sono costanti grazie all’arcivescovo Mieczskaw Mokrzycki, originario della terra polacca (Lubaczóv per l’esattezza), come spiega il presidente Ortyl. Che aggiunge: “La frontiera Ucraina-Polonia è stata attraversata da circa 7 milioni di persone, oltre 4 sono passati dalla nostra regione. Adesso davanti a noi c’è l’eventualità di una seconda ondata a causa di infrastrutture distrutte, freddo, mancanza d’acqua e servizi. La gente vuole uscire. Noi siamo pronti”.
A.C.