Fino a qualche anno fa un’intervista al Papa era quasi impossibile e se per caso capitava di arrivare a carpire qualche sua Parola, era un fatto straordinario, da prima pagina, roba fine insomma. Adesso il Papa accetta interviste, non si sottrae ai microfoni e alla curiosità dei media, esce dal Vaticano e va dove gli pare (anche a salutare amici del suo tempo di vescovo e cardinale di passaggio a Roma e a benedire un sito appena rimesso a nuovo in cui acquistava dischi). Se interessa, capitò anche a me, sul finire degli anni settanta, quando Paolo VI, papa bresciano, ricevette in udienza l’allora sindaco Cesare Trebeschi con la sua Giunta, alcuni consiglieri e qualche estraneo (curiosi e cronisti invitati), di arrivare con microfono e registratore fino a Lui, raccogliendo dolcissime parole rivolte alla sua Brescia. Potevo essere il primo intervistatore di un papa, ma le ferree leggi vaticane e papaline, allora vigenti, fecero il loro corso e il nastro registrato passò da me al monsignore incaricato di provvedere, con estrema gentilezza, a sequestrarlo. “Però – mi rincuorò il papa – lei ha sicuramente buona memoria e potrà raccontare tutto ai bresciani”. Allora arrivare dal papa e parlargli era un privilegio. Adesso è una possibilità fruibile a tanti. Anche per questo, un’intervista al papa oggi è dentro la norma e non più quell’evento straordinario – da prima pagina, roba fine insomma -, che era…
Così, l’intervista a Papa Francesco, pubblicata ieri da “l’Osservatore Romano”, benché tradotta in diverse lingue e diffusa da Radio Vaticana in tutto il mondo, non ha trovato spazio (salvo le solite eccezioni) sui media nazionali. Allora, provo a proporvela in sintesi, in modo da essere letta, accettata, meditata e messa tra le colse importanti da ricordare. L’intervista, che prende lo spunto da san Giuseppe e dall’anno, concluso l’8 dicembre scorso, che Francesco gli ha dedicato, parla del dovere dei padri, dell’amore che i padri riversano ai figli, dell’essere genitori al tempo del Covid. Andrea Monda e Alessandro Gisotti, fortunati autori dell’intervista, hanno detto ai lettori che il papa, rispondendo alle loro domande, ha mostrato tutto il suo amore per la famiglia, la sua prossimità per chi sperimenta la sofferenza e l’abbraccio della Chiesa ai padri e alle madri che oggi devono affrontare mille difficoltà per dare un futuro ai propri figli. Per favore, leggete e commentate… (Luciano Costa)
Santo Padre, che cosa rappresenta San Giuseppe per Lei?
Non ho mai nascosto la sintonia che sento nei confronti della figura di San Giuseppe. Credo che questo venga dalla mia infanzia, dalla mia formazione. Da sempre ho coltivato una devozione speciale nei confronti di San Giuseppe perché credo che la sua figura rappresenti, in maniera bella e speciale, che cosa dovrebbe essere la fede cristiana per ciascuno di noi. Giuseppe infatti è un uomo normale e la sua santità consiste proprio nell’essersi fatto santo attraverso le circostanze belle e brutte che ha dovuto vivere ed affrontare. (…) In lui potremmo dire c’è l’uomo dei tempi difficili, l’uomo concreto, l’uomo che sa prendersi la responsabilità. Da una parte la sua spiccata spiritualità, dall’altra la sua concretezza: Giuseppe è l’uomo concreto, cioè l’uomo che affronta i problemi con estrema praticità, e davanti alle difficoltà e agli ostacoli, egli non assume mai la posizione del vittimismo. Si mette invece sempre nella prospettiva di reagire, di corrispondere, di fidarsi di Dio e di trovare una soluzione in maniera creativa.
Questa rinnovata attenzione a San Giuseppe in questo momento di così grande prova assume un significato particolare?
Il tempo che stiamo vivendo è un tempo difficile segnato dalla pandemia del coronavirus. Molte persone soffrono, molte famiglie sono in difficoltà, tante persone sono assediate dall’angoscia della morte, di un futuro incerto. Ho pensato che proprio in un tempo così difficile avevamo bisogno di qualcuno che poteva incoraggiarci, aiutarci, ispirarci, per capire qual è il modo giusto per sapere affrontare questi momenti di buio. Giuseppe è un testimone luminoso in tempi bui. Ecco perché era giusto dare spazio a lui in questo tempo per poter ritrovare la strada.
Il suo ministero petrino è iniziato proprio il 19 marzo, giorno della festa di San Giuseppe…
Credo che in qualche modo San Giuseppe mi abbia voluto dire che avrebbe continuato ad aiutarmi, ad essermi accanto, e io avrei potuto continuare a pensare a lui come a un amico a cui rivolgermi, a cui affidarmi, a cui chiedere di intercedere e di pregare per me.
Cosa i figli di oggi, cioè i padri di domani, possono ricevere dal dialogo con San Giuseppe?
Non si nasce padri ma certamente tutti nasciamo figli. Questa è la prima cosa che dobbiamo considerare, cioè ciascuno di noi al di là di quello che la vita gli ha riservato è innanzitutto un figlio, è stato affidato a qualcuno, proviene da una relazione importante che lo ha fatto crescere e che lo ha condizionato nel bene o nel male. Avere questa relazione, e riconoscerne la sua importanza nella propria vita, significa comprendere che un giorno, quando avremo la responsabilità della vita di qualcuno, cioè quando dovremo esercitare una paternità, porteremo con noi innanzitutto l’esperienza che abbiamo fatto personalmente. Ed è importante allora poter riflettere su questa esperienza personale per non ripetere gli stessi errori e per fare tesoro delle cose belle che abbiamo vissuto. Ciò sta a significare che Giuseppe ha fatto talmente tanto bene il padre fino al punto che Gesù trova nell’amore e nella paternità di quest’uomo il riferimento più bello da dare a Dio. Potremmo dire che i figli di oggi che diventeranno i padri di domani dovrebbero domandarsi quali padri hanno avuto e che padri vogliono diventare. Non devono lasciare che il ruolo paterno sia frutto del caso o semplicemente della conseguenza di un’esperienza fatta in passato, ma che consapevolmente possano decidere in che modo voler bene a qualcuno, in che modo prendersi la responsabilità di qualcuno.
Giuseppe è però anche un padre che sa essere presente ma lasciando libero il figlio di crescere. È possibile questo in una società come la nostra che sembra premiare solo chi occupa spazi e visibilità?
Una delle caratteristiche più belle dell’amore, e non solo della paternità, è appunto la libertà. L’amore genera sempre libertà, l’amore non deve mai diventare prigione, possesso. Giuseppe ci mostra la capacità di aver cura di Gesù senza mai impossessarsene, senza mai volerlo manovrare senza mai volerlo distrarre da quella che è la sua missione. Un buon padre è tale quando sa togliersi al momento opportuno affinché il figlio possa emergere con la sua bellezza, con la sua unicità, con le sue scelte, con la sua vocazione. In questo senso in ogni relazione di bene bisogna rinunciare a voler imporre dall’alto un’immagine, un’aspettativa, una visibilità appunto, un riempire completamente e sempre la scena con un eccessivo protagonismo. (…) Allora noi dobbiamo domandarci se siamo in grado di saper fare un passo indietro, di permettere all’altro, e soprattutto a chi ci è affidato, di trovare in noi un riferimento ma mai un ostacolo.
Ma se la paternità oggi è in crisi, che cosa si può fare, cosa può fare la Chiesa, per ridare forza alla relazione padre-figlio, fondamentale per la società?
Credo che dovremmo avere il coraggio di dire che la Chiesa non dovrebbe essere solo materna ma anche paterna. È chiamata cioè a esercitare un ministero paterno non paternalistico. E quando dico che la Chiesa deve recuperare questo aspetto paterno mi riferisco proprio alla capacità tutta paterna di mettere i figli in condizione di prendersi le proprie responsabilità, di esercitare la propria libertà, di fare delle scelte.
A volte la paura, ancor più in questo tempo di pandemia, sembra paralizzare questo slancio…
Sì, questo periodo storico è un periodo segnato dall’incapacità di prendere delle decisioni grandi nella propria vita. Un vero padre non ti dice che andrà sempre tutto bene ma che se anche ti troverai nella situazione in cui le cose non andranno bene tu potrai affrontare e vivere con dignità anche quei momenti, anche quei fallimenti. Una persona matura la si riconosce non nelle vittorie ma nel modo con cui sa viver un fallimento. È proprio nell’esperienza della caduta e della debolezza che si riconosce il carattere di una persona.
Per Lei dice che è molto importante la paternità spirituale. Allora i sacerdoti come possono essere padri?
Se un buon padre, umanamente parlando, è tale perché aiuta il figlio a diventare se stesso, rendendo possibile la sua libertà e spingendolo alle grandi decisioni, ugualmente un buon padre spirituale è tale non quando si sostituisce alla coscienza delle persone che si affidano a lui, non quando risponde alle domande che queste persone si portano nel cuore, non quando spadroneggia sulla vita di chi gli è affidato, ma quando in maniera discreta e allo stesso tempo ferma riesce a indicare la strada, fornire chiavi di lettura diverse, aiutare nel discernimento.
Cosa è più urgente oggi per dare forza a questa dimensione spirituale della paternità?
Si sente una grande urgenza, in questo momento storico, di relazioni significative che potremmo definire di paternità spirituale, ma – permettetemi di dire – anche di maternità spirituale, perché questo ruolo di accompagnamento non è una prerogativa maschile o soltanto dei sacerdoti. Ci sono tante brave religiose, tante consacrate, ma anche tanti laici e tante laiche che hanno un bagaglio di esperienza tale da poter condividere con altre persone. In questo senso il rapporto spirituale è una di quelle relazioni che dobbiamo riscoprire con più forza in questo momento storico senza mai confonderlo con altri percorsi di natura psicologica o terapeutica.
Tra le drammatiche conseguenze del Covid c’è anche la perdita di lavoro di tanti padri. Cosa si sente di dire a questi papà in difficoltà?
Sento molto vicino il dramma di quelle famiglie, di quei padri e di quelle madri che stanno vivendo una particolare difficoltà, aggravata soprattutto a causa della pandemia. Credo che non sia una sofferenza facile da affrontare quella di non riuscire a dare il pane ai propri figli, e di sentirsi addosso la responsabilità della vita degli altri. In questo senso la mia preghiera, la mia vicinanza ma anche tutto il sostegno della Chiesa è per queste persone, per questi ultimi. Ma penso anche a tanti padri, a tante madri, a tante famiglie che scappano dalle guerre, che sono respinte ai confini dell’Europa e non solo, e che vivono situazioni di dolore, di ingiustizia e che nessuno prende sul serio o ignora volutamente. Vorrei dire a questi padri, a queste madri, che per me sono degli eroi perché trovo in loro il coraggio di chi rischia la propria vita per amore dei propri figli, per amore della propria famiglia. E a tutti loro e alle loro famiglie vorrei dire di non sentirsi soli! Il Papa si ricorda di loro sempre e per quanto possibile continuerà a dare loro voce e a non dimenticarli.