Lavoro che magari c’è, ma lavoratori che non si trovano. Così, A fronte dei 531mila lavoratori ricercati dalle imprese a settembre (7 mila in più rispetto a un anno fa), almeno secondo i dati contenuti nel Bollettino redatto dal sistema informativo (denominato “Excelsior” e realizzato da Unioncamere in collaborazione con Anpal) , crescono le difficoltà di reperimento delle figure professionali adatte da parte delle imprese, difficoltà che interessano addirittura il 48% delle assunzioni programmate, in aumento di 5 punti percentuali rispetto a dodici mesi fa. Per molte figure tecnico-ingegneristiche e di operai specializzati la quota di lavoratori ricercati ma difficilmente reperibili tocca valori compresi fra il 60% e il 70%.
In pratica le imprese dichiarano difficoltà di reperimento per oltre 252mila assunzioni a settembre, confermando come causa prevalente la «mancanza di candidati» con una quota del 31,7%, mentre la «preparazione inadeguata» si attesta al 12%. Mancano operai specializzati (il 64,2% delle entrate è difficile da reperire), i conduttori di impianti fissi e mobili (53,2%) e le professioni tecniche (49,5%). Le figure più difficili da trovare sono, secondo il rapporto di Unioncamere, gli attrezzisti, operai e artigiani del trattamento del legno (74,1% e un picco dell’87,7% nel Nord Ovest), gli operai specializzati addetti alle rifiniture delle costruzioni (73,6%), i meccanici artigianali, montatori, riparatori, manutentori macchine fisse e mobili (73,1%) e i fabbri ferrai costruttori di utensili (72%). È arduo reperire anche i tecnici della gestione dei processi produttivi di beni e servizi, i tecnici in campo ingegneristico, i tecnici della salute e i tecnici della distribuzione commerciale. A livello territoriale evidenziano maggiori difficoltà di reperimento le imprese delle regioni del Nord Est, dove il 53,4% del personale ricercato è difficile da trovare, una quota notevolmente superiore a quella registrata nel Sud e Isole (43,5%) e nel Centro (45,9%), mentre il valore nel Nord Ovest (47,4%) si mantiene vicino alla media. Nel dettaglio delle assunzioni emerge che il tempo determinato si conferma la forma contrattuale maggiormente proposta con 284mila unità, pari al 53,4% del totale. Seguono i contratti a tempo indeterminato (108mila), i contratti di somministrazione (57mila), gli altri contratti non alle dipendenze (32mila), i contratti di apprendistato (26mila), gli altri contratti alle dipendenze (14mila) e i contratti di collaborazione (11mila).
Tra i settori è in crescita la domanda per servizi alle persone e logistica, mentre aumenta l’incertezza per commercio e turismo. Sale infine il ricorso alla manodopera straniera che passa da 95mila ingressi dello scorso anno, pari al 18,2% del totale entrate, agli attuali 108mila ingressi, pari al 20,4% del totale entrate (+13mila contratti; +13,6%). A ricorrere maggiormente alla manodopera straniera sono i servizi operativi di supporto a imprese e persone (il 35,2% delle entrate programmate è riservato a manodopera straniera), i servizi di trasporto, logistica e magazzinaggio (32,7%), le industrie metallurgiche e dei prodotti in metallo (25,8%), i servizi di alloggio ristorazione e turistici (25,7%) ed infine le industrie alimentari (25,1%).
Non è certo un quadro rassicurante, “però – dicono gli esperti -, una soluzione è possibile: basta non avere paura dei migranti e delle loro potenzialità lavorative…”. Il che vuol dire allargare gli ingressi, una soluzione che però non trova consenso da parte del Governo. Quindi… Aspettare. Pima o poi la questione sarà matuyra e pronta per essere adottata. Nel frattempo, ecco un studio dedicato ai soldi che i migranti mandano ai loro paesi d’origine.
I MIGRANTI RISPARMIANO E INVIANO A CASA QUEL CHE NON SPENDONO – Ci sono paesi in via di sviluppo che non possono fare a meno dei soldi ricevuti dalle persone emigrate all’estero in cerca di un lavoro migliore, di più opportunità, oppure per scappare da guerre o gravi conflitti sociali. In certi casi il flusso di denaro inviato a casa dai lavoratori emigrati supera quello degli aiuti internazionali, e rappresenta una fonte di finanziamento essenziale per sostenere le economie più fragili. Il termine tecnico utilizzato per chiamare questi soldi è “rimesse”, che vengono inviate alla famiglia di origine ma anche a contatti e organizzazioni che hanno bisogno di aiuto. In Italia le rimesse vengono analizzate in modo costante dalla Banca d’Italia.
I dati sono ricavati dal tracciamento del denaro trasferito attraverso bonifici bancari, dalle Poste e da operatori di money transfer come Western Union o MoneyGram: sono gli unici canali ufficiali e formali per trasferire denaro. Tuttavia esistono anche canali informali da cui passa una parte di soldi non tracciata, per esempio quando un lavoratore o una lavoratrice porta con sé una certa quantità di banconote durante un breve ritorno nel paese di origine: e più questo è vicino, più la quota di rimesse invisibili è alta. Secondo le stime della Banca d’Italia, i canali informali nascondono tra il 10 e il 30 per cento del flusso totale.
Nel 2022 le rimesse inviate dall’Italia sono state di oltre 8,2 miliardi di euro, circa 500 milioni in più rispetto all’anno precedente. Nel primo trimestre del 2023 sono stati inviati all’estero quasi due miliardi di euro. Il paese dove sono stati inviati più soldi nel 2022 è il Bangladesh: quasi 1,2 miliardi di euro, in crescita rispetto agli 873 milioni del 2021. Al secondo posto c’è il Pakistan con 699 milioni di euro e al terzo posto le Filippine con 623 milioni di euro. Seguono Marocco, Romania, Senegal e India.
I risultati di un sondaggio realizzato nel 2021 dal Centro di studi di politica internazionale (CESPI), dicono che le persone inviano soldi in media cinque volte all’anno, con un importo medio intorno ai 600 euro. Le lavoratrici inviano più soldi e con una frequenza maggiore rispetto agli uomini. Oltre alle rimesse in uscita, esiste anche una quota meno consistente di rimesse in entrata, cioè i soldi spediti a casa dai lavoratori italiani all’estero. Il saldo delle rimesse dell’Italia è diventato negativo dalla metà degli anni Novanta, quando l’aumento dei lavoratori immigrati ha portato le rimesse in uscita a superare la quota ormai residuale di rimesse in entrata. L’ampio divario tra i due flussi di denaro dipende anche dal diverso grado di benessere: le persone straniere che lavorano in Italia provengono generalmente da famiglie meno abbienti rispetto agli emigrati italiani.
Secondo un’interpretazione condivisa da diversi studi, l’incertezza dovuta alla pandemia ha spinto molte persone a inviare a casa i propri risparmi in attesa di capire come andassero le cose. Durante la pandemia inoltre è aumentato il ricorso ai canali formali, tracciabili, dovuto all’impossibilità di viaggiare per via delle restrizioni: le banche, le poste e i servizi di money transfer sono stati inseriti tra i servizi essenziali e non hanno subito limitazioni. Tra le altre cose negli ultimi anni il trasferimento di denaro è diventato meno costoso e quindi più accessibile. Prima del 2014 a un trasferimento di 200 euro veniva applicata una commissione di circa il 7%, scesa al 5,5% nell’ultimo trimestre del 2022.
Oltre un quinto delle rimesse viene inviato dalle persone straniere che lavorano in Lombardia. La seconda regione è il Lazio, a cui seguono Emilia-Romagna, Veneto e Toscana. In generale, le regioni italiane con più opportunità lavorative accolgono più lavoratori stranieri che quindi inviano rimesse più alte. Nella prossima mappa è possibile osservare la distribuzione delle rimesse a livello provinciale: cliccando su ogni singola provincia consente di visualizzare i paesi a cui vengono inviati più soldi.
Indagini internazionali mostrano come solitamente le rimesse vengano spese per beni di consumo cioè per comprare cibo, vestiti e alimenti. Uno dei maggiori benefici delle rimesse è la possibilità data alla famiglia di origine di uscire da condizioni di povertà, ma alla lunga anche di stabilizzare il reddito e di fare investimenti. Fare affidamento sulle rimesse consente di programmare il futuro con più tranquillità e di assicurare ai familiari una salute e un’istruzione migliore. Aumentano anche le possibilità di comprare una casa e di avere una pensione.
(A cura di LUCIANO COSTA)