C’è ancora chi crede nel valore della solidarietà senza confini e c’è chi la solidarietà la intende come esercizio da svolgere nel ristretto orto di casa. “Ma la solidarietà – diceva un vecchio che la praticava in silenzio e nel nascondimento più assoluto – non può avere confini, perché senza con fini sono i bisogni della gente”. Una suora che presto salirà agli onori degli altari (suor Lucia Ripamonti, Ancella della Carità) negli anni della guerra e del disastrato dopo guerra andava in giro per la città portando pane e qualunque cosa potesse servire ad alleviare le paure delle persone. E a chi la incontrava, in aggiunta alle poche preziose cose che portava, quella suora regalava sempre una preghiera, quel “Pater Noster…” che se recitato col cuore sgombro da avarizia, diceva “fa miracoli e trasforma il niente in tanto…”.
A questo pensavo ieri leggendo le note di cronaca che celebravano i primi cinquant’anni di attività della Caritas, pia e benemerita istituzione nata negli anni più cupi, segnati da violenza e terrorismo, anni di piombo, terribili e insicuri. Fu in quel frangente che papa Paolo VI, con la forza del Concilio che aveva portato a compimento, spalancò le porte alla carità sapiente e decise che “dentro la Chiesa doveva abitare e agire la Caritas”. Così la Caritas, da quel momento, divenne il punto di partenza e di riferimento delle azioni solidali. Quella che prima era considerata la carità parrocchiale, o del vescovo, oppure di qualche buon cristiano, da quel momento assumeva l’ufficialità di un servizio “a cui la Chiesa comunità non poteva essere estranea”. In questo contesto la Caritas italiana ha camminato mezzo secolo accanto agli ultimi diventando “una presenza famigliare” costante e determinante, proprio come l’aveva immaginata Paolo VI quando le diede vita inaugurando un nuovo organismo pastorale capace di portare nella società e nella Chiesa lo spirito del Concilio.
I primi passi della Caritas evidenziarono lo spirito che la sorreggeva: non un ufficio qualunque, ma l’ufficio in cui i poveri e i disperati trovavano mani disposte a sorreggerli e ad aiutarli. Gli anni Settanta e la generazione conciliare, portarono fermento e voglia di rinnovamento nella Chiesa. Poi, con il primo convegno ecclesiale su “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma nel 1976, venne lanciata ai ragazzi la proposta dell’obiezione e del servizio civile e alle ragazze quella dell’anno di volontariato sociale. Così, nel 1981, quattro ragazze vicentine diedero impulso all’Avs (Anno di Volontariato Sociale). Era il clima del post Concilio, di grande entusiasmo, con la volontà di essere in qualche modo utili e valorizzati nella Chiesa e nella società.
Nel 1977 la Caritas stipulò la convenzione col ministero della Difesa per il servizio degli obiettori di coscienza al servizio militare, che saranno oltre 100mila alla sospensione della leva nel 2005. Il valore dei volontari si manifestò innanzitutto nelle emergenze. I terremoti che colpirono duramente l’Italia dal Friuli alla Basilicata divennero banchi di prova della generosità spontanea. Poi nel 1982 presero consistenza il nuovo ufficio mondialità e iniziative che rispondevano sistematicamente al dovere di stare dalla parte delle persone e all’obbligo di aver cura dei soldi, ricevuti in dono o messi a disposizione dalle comunità, da rendicontare con trasparenza. In quegli anni, significativi furono gli interventi solidali portati nell’ex-Jugoslavia e poi in tutti i Balcani, in Ruanda e nella regione africana dei Grandi Laghi e in Somalia.
Con il Giubileo del 2000 vennero lanciati quattro ambiti di impegno a livello nazionale e diocesano: il debito estero, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, il carcere, la disoccupazione giovanile. Seguirono gli impegni su povertà di strada, devianza minorile, immigrazione, insediamenti di nomadi. Poi, in sintonia con papa Francesco, l’impegno crescente a favore della salvaguardia del Creato con la richiesta di un nuovo modello di sviluppo a fronte delle crescenti disuguaglianze e delle crisi economiche e finanziarie che colpiscono il ceto medio e i precari. Nacquero così i fondi diocesani di aiuto alle famiglie e gli empori solidali. E di fronte all’arrivo dei profughi in fuga dal nord Africa, dalla Siria e dai conflitti dell’Africa subsahariana, nel 2017 partirono i corridoi umanitari finanziati dalla Conferenza Episcopale Italiana con i fondi dell’Otto per mille.
Oggi la realtà della Caritas è fondata sulla collaborazione e il noto proclama che dice tutti per uno, uno per tutti, continua a essere la sintesi di un impegno che affonda le sue radici nel Concilio e che mette in bella evidenza volontari e operatori affamati e assetati di giustizia.
Forse anche traduttori attuali di tutto ciò che di sacro e di sociale è racchiuso in quel “Pater Noster…” che l’umile suora portava in dono ai suoi amici disperati. E sono ancora loro, i disperati e “i poveri di spirito” destinati però a incontrare la beatitudine, a declamarlo nel modo migliore, cioè nella più assoluta semplicità: “O Padre nostro che in cielo stai”, scriveva Dante per dire che “Dio è sì nei cieli, ma non è limitato da essi; e che se risiede lì è perché si compiace della presenza delle prime cose che ha creato, ovvero i cieli e gli angeli. Poi, ancora Dante a proposito del “sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” chiede che gli uomini si adeguino al sacrificio compiuto dagli angeli; e nella domanda che riguarda il pane quotidiano, affiorano i termini manna e diserto, messi lì per ricordare l’esperienza dell’esodo del popolo di Israele. Però, nella richiesta del perdono dei peccati Dante inverte i termini: parte dall’uomo che perdona e solo dopo parla della misericordia di Dio. Poi, per chiudere, il poeta chiede al “Padre nostro…” di non mettere alla prova la pochezza e la fragilità degli uomini.
C’è materia sufficiente su cui meditare e così scoprire che la carità (quella che guida i passi della benemerita Caritas) è di tutti e non solo di questo o quell’ufficio ecclesiale.
LUCIANO COSTA