A Irpin, sobborgo di Kiev, anche adesso che la guerra segna il suo triste ventesimo giorno sommando lutti e distruzioni (nella notte Kiev è stata bombardata e fino ai con fini con la Polonia cadono bombe e missili) c’è chi combatte, chi fugge, chi si nasconde. E c’è anche chi racconta attraverso parole, filmati, testimonianze. Brent Renaud, giornalista statunitense freelance di 51 anni, si trovava a Irpin proprio per questo: svolgere il lavoro di giornalista che come principale compito ha quello di “ascoltare, approfondire, raccontare”. L’altro ieri, mentre filmava la fuga di alcuni profughi dal terreno di guerra, Renaud è stato ucciso dalle truppe russe nei pressi di un checkpoint. Un proiettile lo ha raggiunto al collo. Il giornalista è morto sul colpo. Lo ha raccontato un suo collega rimasto ferito nello stesso attacco: sdraiato sulla barella di un ospedale, ancora ignaro della sorte di Renaud, il sopravvissuto invoca non il collega, ma l’ami co.
Sì, perché, in questi giorni di guerra i giornalisti non stanno solo lavorando. Gli inviati che ancora si trovano in Ucraina costruiscono relazioni, condividono emozioni, immagazzinano ricordi, affrontano paure. Ogni giorno. Insieme. “Consumano – per dirla con papa Francesco – la suola delle scarpe con passione e coraggio”.
Nello Scavo, inviato speciale in Ucraina per il quotidiano Avvenire, tornato da poco in Italia, ma già pronto a ripartire dice che “il giornalismo sul campo è un giornalismo di presenza, testimonianza e prossimità. Le poche cose di cui abbiamo bisogno sono gli occhi e, come diceva Čechov, un paio di scarpe buone e un quaderno di appunti”. E se quello dell’informazione è un mondo sempre più in difficoltà e in trasformazione, è altrettanto vero che “per il giornalismo tradizionale, la guerra in Ucraina rappresenta una rivincita sui nuovi mezzi di comunicazione. Infatti — aggiunge l’inviato —, se attraverso i social network ci eravamo convinti di poter avere un’informazione esaustiva, ora abbiamo capito l’importanza del patto che il giornalista sul campo stabilisce col lettore. Io provo a raccontarti ciò che vedo e a darti un contesto. Ma non posso raccontare ciò che non vedo. Se mi trovo su una barricata di Kiev, quel racconto specifico diventa il racconto di tutta la guerra. La singola storia assume universalità. Il lettore si deve fidare e deve premiare gli occhi del giornalista, che dev’essere anche in grado di selezionare i fatti”.
Mestiere difficile quello del giornalista, ancor di più quello di inviato sui luoghi in cui si combatte la guerra. “Un lavoro complicatissimo — spiega — soprattutto quando, davanti agli occhi, ci sono scene tanto violente. Allora è importante riuscire a mettere da parte le emozioni per dedicarsi solo al racconto. È una questione di indole, creatività, cultura personale e tanta esperienza sul campo. Il giornalista — aggiunge — deve conservare il pudore delle proprie emozioni. Certo, è bene che qualcosa arrivi al lettore, perché siamo esseri umani. Ma la prima regola di questo lavoro è etica: la notizia viene prima di tutto”.
A proposito del giornalista statunitense ucciso, Nello Scavo non ricorda di averlo incrociato in Ucraina: “Sono stato a Irpin, proprio il giorno prima che i russi prendessero il controllo e bersagliassero di colpi i colleghi di Sky Uk. Niente è davvero prevedibile”. Però, non manca mai la speranza. Nello Scavo racconta… “Una mattina, con i miei colleghi, esco dal bunker. Cerchiamo persone, volti, storie. Eravamo nella settimana di carnevale. Per strada, troviamo dei bambini mascherati. Sono vicino a un chiosco miracolosamente aperto. Finiamo per ritrovarci con gli sfollati a mangiare e a bere. Nonostante le bombe e gli allarmi. Per un attimo, abbiamo tutti sconfitto la paura. Ce lo hanno dimostrato i bambini: la paura si può sconfiggere. Così come la speranza va sempre cercata.
Guglielmo Gallone (Avvenire)