LA GRECIA, DIRIMPETTAIA D‘ITALIA, affacciata sul medesimo mare- detto non a caso “mare nostrum”, cioè di tutti senza distinzione alcuna -, un Paese civile, provato da mille e mille tragedie, custode millenario di civiltà, abituato a condividere e porgere la mano a chiunque bussava alla sua porta, terra in cui le pietre parlano e le strade riversano continuamente aneliti di libertà e di democrazia, provata certo da dittature militari ma anche ogni volta pronta a risorgere e a cantare la ritrovata capacità, come ha scritto uno sconosciuto poeta, di “vivere come rondini senza tempo, ora qui ora là, mai ospiti di un solo filo o di un solo nido”… La Grecia, un Paese che improvvisamente e improvvidamente viene sbattuto in prima pagina e raccontato come nemico della civiltà con parole gravi che chiedono “perché tanta barbarie?”. Trascrivo le righe di cronaca che raccontano l’accaduto non per accusare, ma solo per sottolineare quel che nessuno dovrebbe, quale sia la sua logica politica o la sua origine, arrogarsi di fare. Eccole.
“La Grecia sostiene di non abbandonare i migranti in mare. Ma è stata colta sul fatto». E’ il titolo dell’articolo-denuncia pubblicato dal quotidiano statunitense New York Times. Nel video si vede un gruppo formato da 12 persone migranti, tra cui alcune donne e bambini, che dopo essere approdato sull’isola di Lesbo ed essere scampato al “viaggio” in mare viene caricato con la forza su un autobus che li porta nel lato dell’isola meno abitato, dove si vede una motovedetta della Guardia costiera greca che li riporta in mare per abbandonarli, lasciandoli, infine, su un gommone alla deriva in mare. Un respingimento in piena regola nel mare Egeo, effettuato dalle autorità greche che di fatto mettono nuovamente a rischio e in pericolo di vita le persone migranti. Peraltro dopo che queste erano approdate sul suolo greco e dunque avrebbero avuto il diritto di chiedere asilo e protezione internazionale in Europa.
«Non ci aspettavamo di sopravvivere quel giorno. Quando ci hanno messo sulla zattera gonfiabile, lo hanno fatto senza alcuna pietà», ha raccontato Aden, una donna di 27 anni originaria della Somalia. Secondo i giornalisti del New York Times, il calvario vissuto da Aden e dalle altre 11 persone caricate sul gommone è lo stesso di tanti altri migranti respinti dalle autorità greche. Non è la prima volta che in Grecia si discute di questi metodi di respingimento. Finora, però, le autorità e il governo hanno sempre negato ogni accusa. Ma adesso, per la prima volta, un attivista (cittadino austriaco, tale Fayad Mulla) è riuscito a riprendere integralmente tutti i passaggi in un video e a condividerli con il giornale americano. Questi fatti, non gli unici purtroppo, risalgono ad aprile. Altri giacciono, per ora, nel cassetto dimenticato delle storie di ordinaria disperazione.
UCRAINA E RUSSIA: LONTANE MA VICINE – Riprendo le fila del discorso iniziale e ricordo squarci di umanità raccontati in memorabili romanzi ispirati dalla grande steppa, quella che abbracciavano le zolle di terra dell’intera Europa orientale. Che storie! C’era il dottore che curava con le erbe del prato e i fili di refe rubati alle vesti della madre; poi le giovani che fuggendo convinte di trovare un buon futuro raccoglievano fiori di campo da regalare; e ancora i cantori di libertà e uguaglianza per i quali la dottrina del proletariato assomigliava a un cielo nuovo e tutto da abitare, anche quelle di uomini e donne strappati dai loro territori natii e mandati per punizione a popolare lontani gulag; ma anche coraggiosi interpreti del divere di rendere liberi, che però trovavano sempre strade sbarrate e dittatori infami pronti a ucciderli se quel vile gesto impediva alla loro voce di intonare il canto della democrazia. Così ieri, così oggi, quando la Russia sta soggiogando l’Ucraina, nazione colpevole di non volersi sottomettere al volere del folle zar che adesso la comanda. E oggi, il vento della repressione in atto si confini tra Ucraina e Russia assomiglia a quello del soldato che invoca pietà. Racconta questa pagina di “pietà che è morta e sepolta, offesa e vilipesa”, Ferdinando Camon, notista politico e saggio cultore di umanità. Credetemi, merita d’essere letta e meditata.
Gira in internet una scena breve ma importante: la scena di una resa. Un soldato russo si arrende a un drone ucraino. Si arrende levandosi in piedi (è accucciato in una trincea) e alzando le mani. Non c’è nessun nemico in carne e ossa che accetta questa resa, ma c’è un drone nell’aria: il soldato si arrende al drone. E si arrende in maniera disperata, come se il drone avesse facoltà di graziarlo o fucilarlo all’istante. E ce l’ha infatti: il drone è armato e lo cattura, poi lo guida verso il punto di raccolta dei prigionieri. Nell’atto di arrendersi al drone, il prigioniero russo solleva le mani giunte e le agita in aria in segno di preghiera, come se davanti a sé avesse il Padreterno. A questo punto il lettore deve sapere una cosa: un soldato, di qualunque esercito, non sa come bisogna fare per arrendersi. La resa è un atto sconosciuto.
Mai spiegato a nessuno. Chi scrive questo articolo ha fatto il servizio militare frequentando la Scuola Ufficiali di Lecce, e ricorda che tra gl’istruttori c’era un sergente che aveva fatto la guerra e, trovandosi accerchiato dai nemici, voleva arrendersi ma non sapeva come si fa. In nessuna scuola militare ti insegnano la resa. La resa non esiste. Né per chi si arrende né per chi accoglie gli arresi. A Bakhmut, città sotto assedio e contesa, un soldato russo ha segnalato a un drone ucraino di volersi arrendere. Gli è stato lanciato un biglietto con scritto: “Segui il velivolo”.
C’è un vecchio film in cui i tedeschi si arrendono ai francesi e si alzano in piedi con le mani in alto gridando “bitte, bitte”. Ma i francesi gli sparano addosso, poi si guardano in faccia e si chiedono: “Cosa vuol dire?”. Vuol dire “per favore”, lo si usa chiedendo venia e grazia, magari dichuiarando la resa… M a poiché, allora come forse anche adesso, non si sa come si fa la resa, semplicemente non la si fa. Se la resa fosse ben spiegata ai soldati, i soldati non farebbero altro che quella. La resa dev’essere un atto estremo, d’invenzione, di disperazione: nel video che sto commentando c’è il soldato russo scoperto nella sua trincea da un drone ucraino, il drone gli sta dando degli ordini, per portarlo al punto di raccolta, e il soldato agita in aria le mani giunte in segno di disperata preghiera. Il giusto nome per questo spezzone sarebbe: “Soldato a mani giunte prega un drone”.
È la prima volta che vedo una scena del genere. Ma certamente non sarà l’ultima. Capiterà ancora che si cattureranno i nemici a distanza, li si raggruppa, li si porta via, per radunarli da qualche parte. Vien da chiedersi: un drone che cattura un prigioniero è più buono o più cattivo di un soldato? Credo che bisogni lasciar giudicare al prigioniero. Il prigioniero è più consolato o più spaventato se vien catturato da un drone? Basta guardare questo prigioniero. È spaventatissimo. Prega il drone agitando le mani giunte come se fosse Dio. Prega, ma non vede nessuna risposta alla sua preghiera. Il vincitore pregato può avere pietà o crudeltà. Con la stessa indifferenza. È una macchina. Non ha anima. Perciò dico: un drone è più crudele di un uomo.
LUCIANO COSTA