Ho ricordi bellissimi della Turchia e della sua gente. Invece, non ho stima, né comprensione e neppure giustificazione per Recep Tayyip Erdoğan, il suo presidente, dodicesimo della serie, di certo il peggiore che la storia ricordi. L’ultima sua sparata, contro la Francia e l’Europa, ritenute colpevoli di rispondere agli attentati islamisti (ultimo quello della decapitazione di un insegnante avvenuta a Parigi) con una campagna di linciaggio nei confronti dei musulmani analoga a quella che, secondo lui, Francia ed Europa avrebbero scatenato contro gli ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Ha scritto ieri Ernesto Galli della Loggia che “quando Erdogan ha pronunciato quelle parole, aveva la ragionevole certezza che i suoi ascoltatori turchi e islamici le avrebbero considerate vere e fondate o quanto meno plausibili: e infatti è così che le hanno giudicate.
Ma come è possibile – si chiede l’editorialista del “Corriere della sera” – che l’opinione pubblica dei Paesi islamici creda davvero che oggi in Europa ci sia una specie di Notte dei Cristalli ai danni di milioni di musulmani, che milioni di musulmani siano discriminati da qualcosa di analogo alle leggi di Norimberga e magari sul punto di essere portati in un campo di concentramento?”.
Secondo me è possibile nella misura in cui si guarda a ciò che ai musulmani è permesso sapere. Cioè, più o meno niente: non ciò che è accaduto in Europa nel secolo scorso, niente della Shoah, men che meno del terrorismo e dei suoi attori, ancor di meno della risposta che a esso danno le nostre democrazie. E non lo sanno “perché i suoi libri non ne parlano, perché la sua scuola non lo insegna, i suoi media tacciono o disinformano. E si comportano in questo modo – annota Galli della Loggia – perché costretti a ubbidire alle disposizioni provenienti dall’alto, da ordini di governo in varia misura dispotici, che hanno interesse a mantenere i propri cittadini in uno stato di minorità intellettuale e culturale per meglio condizionarli o manovrarli”. Così in Turchia migliaia di maestri e professori non in linea con il regime di Erdogan sono stati licenziati, perseguitati e costretti a mendicare o a lavorare di nascosto per poter sopravvivere. Come quel docente, che estromesso dalla scuola si è adattato a intrecciare braccialetti, che io e amici diversi abbiamo acquistato da lontano per tentare di alleviare il suo dramma.
La Turchia, paese di millenaria cultura e ponte naturale tra Europa e Asia, è oggi oppresso dalla dittatura imposta da Erdogan, “un dittatore – ha scritto un cittadino su internet – che ha di nuovo islamizzato il Paese e ha distrutto le fondamenta laiche dello Stato, quelle volute da Ataturk”. Ragion per cui “oggi la gente ha paura di esprimere dissenso nei suoi confronti, ogni istituzione indipendente è stata esautorata e a capo delle stesse ha posto suoi parenti e amici dimostrando in tal modo che di democratico la Turchia non ha più nulla”. Per altri, ad esempio un ricercatore universitario di probabile origine turca, “il regime di Erdogan non è dittatoriale, perché lui è sempre eletto dal popolo che si riconosce in un partito vittorioso alle elezioni. La democrazia – aggiunge il ricercatore – non è stata sospesa in Turchia. Però, alla pari di Putin, Erdogan ha imposto un regime autoritario, con molti giornalisti imprigionati e uccisi e altri opponenti politici eliminati. La Turchia però, anche prima di Erdogan, ha avuto problemi che hanno visto contrapporsi i militari laici da una parte e gli islamici dall’altra. Erdogan fa parte di quest’ultimi”.
Opinioni diverse e diverso il modo di vedere quel che accade in quel lembo di mondo. Al di là delle opinioni, la realtà dice che tutto ruota attorno a un Dio, forse caro a Erdogan, ma che non è il Dio che emerge dalle parole dei profeti, i quali hanno sempre inseguito la dottrina di un unico Dio e per i quali era necessario coniugare Vangelo e Corano in modo da poter cercare unità piuttosto che utilità, certezze al posto di presunte verità.
Qualche tempo fa, ragionando di islam e cristianesimo, della necessità di ampliare la reciproca conoscenza al fine di accorciare se non proprio per annullare le distanze che ancora ci separano, monsignor Giacomo Canobbio chiese a chi lo stava ascoltando di “non essere passivi uditori, perché per favorire dialoghi è necessario essere pronti ad ascoltare e disposti ad aprire il cuore e la mente agli altri”. Bisognava cioè ammettere l’esistenza di due mondi distanti e di due modi diversi di pregare, di pensare e di agire, non per marcare le diversità ma per appianare la strada che porta alla comprensione e all’incontro. “Ogni volta che noi ci incontriamo – scrisse Paolo VI rivolgendosi, nel 1972, alle comunità islamiche – possiamo constatare con lieto stupore quanto siamo vicini e quanto abbiamo in comune, perché noi condividiamo la fede nello stesso Dio”. Non si tratta di cercare le culture, ma le persone: le prime costruiscono muri, le seconde ponti.
Per andare oltre Erdogan, basterebbe incominciare da qui.
LUCIANO COSTA