Soltanto Sofia (Goggia) e Nadia (Delago), argento e bronzo nella discesa libera olimpica, sono riuscite stamani all’alba a far dimenticare i venti di guerra e a suggerire al mondo che è meglio una discesa (libera) ben fatta piuttosto di una disputa tra un potente che vuole essere zar di tutte le russie e un povero ucraino che, tutt’al più, è buono per coltivare grano nelle grandi pianure del suo paese. Ecco, se potessi, manderei Sofia da Putin per spiegargli che non basta la forza per vincere e Nadia dall’ucraino a dirgli di non smettere di credere nella democrazia, perché è in quella piccola-grande parola che si costruisce il futuro di una nazione. Ovviamente, è assai probabile che né Sofia e neppure Nadia, capaci di vincere e sorridere, nel caso fossero incaricate della difficile missione, riuscirebbero a smuovere uno dalla sua idea di mondo a lui sottomesso e l’altro a diventare, costi quel che costi, cantore della democrazia e della libertà.
Questo perché dove abita il russo la democrazia è stata bandita da anni comunismo e poi da altri anni di dittatura popolar-zarista e dove abita l’ucraino la democrazia c’è ma è ancora caricata sporcata e quasi annullata da un’amicizia che tutto vuole e nulla con cede. Questo vuol dire che il russo non è democratico? Fate voi. Secondo me, uno che in testa ha solo la voglia di essere zar di tutte le russie e che impone variazioni alla Costituzione per restare dov’è senza temere eventuali (ma assai improbabili) esiti elettorali, non è democratico. E quel suo mostrare i muscoli ai lillipuziani ucraini e a coloro che in qualche modo li appoggiano, lo conferma. “Per fortuna – come stanotte mi ha scritto il vecchio Paolo – neanche il russo è eterno. Giorno verrà…”. Evito di annotare ciò che il vecchio ha previsto in quel giorno verrà, ma non è certo l’equivalente di una serena vecchiaia.
In attesa di notizie rassicuranti, che il via vai di Capi e inviati dei Capi di Stato e di Governo (c’è anche uno dei nostri, Ministro degli esteri egternamente in bilico gtra il nulla e il tanto) sono impegnati a costruire e a riferire, restiamo in attesa: io e voi di sicuro della pace, qualcun altro, notoriamente amante del rischio e del conseguente guadagno che a esso sempre s’accompagna, della guerra. Però, nell’anno di grazia 2022, davvero il ricorso alla guerra è la soluzione? Ieri, ospite di una classe di terza media interessata al libro dedicato a un prete che i suoi discorsi e le sue prediche le concludeva sempre con l’invito ad avere “Animo, Animo” (si chiamava don Giacomo Vender e gli orrori della guerra e poi della dittatura fascista li aveva misurati sulla sua pelle), sollecitato da alcuni ragazzi che cercavano risposte adeguate alla loro voglia di sapere tutto della guerra che (forse) la Russia sarebbe pronta a scatenare contro l’Ucraina, ho ammesso di essere come loro: incapace di capire che cosa spinge a fare la guerra, ma capace di dire che non è la guerra la soluzione e anche di ripetere che “con la guerra tutto è perduto, che soltanto con la pace tutto è possibile…”. A quel punto è suonata la campana della ricreazione e, d’un sol lampo, la faccenda è stata archiviata. Allora, e meno male, più della guerra poté il gioco.
Però, quella fanciullesca voglia di sapere, sintomo evidente dell’incapacità di noi grandi e adulti di spiegare e informare, mi ha convinto, e di conseguenza spinto a offrire un panorama certo della disputa in atto sulle coste di un mare che suo malgrado si chiama Nero, laddove tra escalation e de-escalation, attacco e ritiro delle truppe dal confine, accuse e negazioni, da settimane prosegue il braccio di ferro. Da un lato la Russia del novello zar Vladimir Vladimirovic Putin (con l’ombrello protettivo dell’alleanza con la Cina fresca di rinnovo) e i sudditi ucraini del Donbass delle Repubbliche secessioniste, dall’altro l’Ucraina del comico diventato presidente Volodymyr Zelensky, la Nato (nella quale l’Ucraina ambirebbe forse a entrare, forse), la Ue (nella quale la stessa entrerebbe a piedi pari), la Gran Bretagna e l’America di Joe Biden.
Basterebbe questo per capire che è una crisi difficile da decifrare. Intuire che se scoppiasse una guerra alle porte orientali dell’Europa, l’intero Continente ne sarebbe travolto, è invece abbastanza facile. Per misurarne gli effetti basta un rapido ripasso, lungo ma necessario, della storia. Eccolo.
Come si è arrivati alla crisi e quali sono gli interessi in campo?
Il paese è eterogeneo per storia, lingua e religione. I confini odierni, nuovamente vacillanti, hanno pochi decenni di vita e molte incognite. L’est del Paese, oltre il fiume Dniepr, è sempre stato marca di frontiera russa. La chiesa ortodossa, affiliata al patriarcato di Mosca, vi domina da secoli, sancendo di fatto la continuità di valori e di comunanza spirituale con la madre Russia. La stessa Crimea, occupata sotto il regno di Caterina II, fu subito russificata ed eletta ad hub strategico fondamentale dagli zar. I russi imperavano nell’area anche quando nel 1954 cedettero la Penisola all’Ucraina. Una mossa di Krusciov, dettata da ragioni di politica interna, senza conseguenze determinanti per la stabilità dell’Unione Sovietica di allora. Sornione sul mar Nero, il porto di Sebastopoli era infatti la via maestra ai mari caldi. E lo è tuttora.
Ma che cosa significa la Crimea nella strategia russa?
La Russia vorrebbe tornare a giocare un ruolo di primo piano nell’area mar Nero-Mediterraneo con accordi militari, basi e forniture belliche a paesi tornati amici…
E l’Ucraina?
Parte del suo territorio è scivolato nell’orbita sovietica solo nel 1922, con alcune eccezioni, perché la regione transcarpatica è rimasta cecoslovacca fino al 1945. Siamo nella parte del Paese che guarda all’Occidente, più che all’infido Est, memore delle tragedie della collettivizzazione forzata di epoca staliniana. Carestie, deportazioni e repressioni hanno causato la morte di 8 milioni di ucraini, lasciando in eredità un risentimento mai sopito nei confronti di Mosca e del socialismo reale. Lo stesso che spinse molti ucraini a guardare a Hitler come soluzione…
Oggi invece cosa è l’Ucraina?
Il Paese ha ritrovato la sua indipendenza solo nel 1991, inglobando 45 milioni di abitanti e 603mila chilometri quadrati, nel tracciato internazionalmente riconosciuto, Crimea inclusa. Ma lo scenario politico si è subito frammentato, per farsi sempre più instabile, soprattutto agli inizi del nuovo millennio, quando sono emerse faglie profondissime tra i fautori del riavvicinamento all’Unione Europea e all’Occidente e i sostenitori del legame storico con la Russia. L’alternanza fra i sostenitori dell’una o dell’altra parte è avvenuta in un clima di torbidi e violenze, con il corollario immancabile di accuse di brogli. Nello scrutinio presidenziale del 2004, la polarizzazione fra est e ovest è stata enorme. Nelle regioni orientali, il filo-russo Viktor Yanukovich aveva ottenuto l’80% dei suffragi, né più né meno di Viktor Yuschenko, plebiscitato all’ovest. Entrambi si sono circondati di personaggi ampiamente corrotti che hanno portato il paese sull’orlo della bancarotta. Non migliore dei suoi predecessori, il presidente Yanukovich ha tentato di mediare. Stimava che l’aiuto europeo fosse imprescindibile. Ma Bruxelles non gli offriva più di 610 milioni di euro, a corollario dell’accordo doganale che avrebbe dovuto essere finalizzato nel novembre 2013. Il Presidente aveva chiesto almeno 20 miliardi di euro, ricevendo picche. È tornato allora alla corte di Mosca, che proponeva da tempo 15 miliardi di dollari in aiuti diretti e continuità di mini-prezzi per il gas naturale. Niente di sorprendente, visto che 240 accordi legavano già russi e ucraini, che gran parte dei settori strategici dell’economia erano strettamente interconnessi e il più degli scambi commerciali ucraini avveniva con la Russia.
Come ha reagito il paese alla prospettiva di un ritorno totale nell’orbita russa?
La sola idea di un nuovo accordo fra Mosca e Kiev ha scatenato la rivolta di Maidan orchestrata dai nazionalisti filo-occidentali e antirussi, alcuni dei quali non hanno esitato a imbracciare le armi e a rovesciare il governo legittimo. Da quel momento in poi c’è stato un avvitamento inarrestabile verso la guerra, con responsabilità da ambo le parti. Il Cremlino non aveva dimenticato la lezione del Kosovo del 1998. Quando bombardò le posizioni serbe in Kosovo, per i russi fu l’ennesimo, amarissimo calice. Era il 1999. Quell’anno, Vladimir Putin ascese al potere, con un unico obiettivo: difendere a ogni costo la sfera d’influenza tradizionale russa. Da allora, il Presidente russo ha mostrato di saper abbinare categorie imperialistiche del XIX secolo a tecniche politiche d’avanguardia, riassumibili in due parole: intervenire e dissimulare, ovviamente servendosi di un mix di strumenti mediatici, umanitari, economici, finanziari e sovversivi, con un di più di mezzi militari. La Crimea e il Donbass ne sono la dimostrazione più evidente. Oggi Putin non ha la forza militare della vecchia Urss, eppure alza ancora la posta, soffiando sulle tensioni già in atto.
Prima di oggi c’è stato il conflitto armato del 2014…
Fin dal primo marzo 2014, migliaia di persone manifestarono a Donetsk contro le nuove autorità di Kiev, filo-occidentali. Subito si impossessarono di depositi di armi, uffici amministrativi e posti di polizia. Il 7 aprile, proclamarono la Repubblica popolare di Donetsk, emulati a Lugansk da altri separatisti. Appena eletto, il presidente ucraino Pietro Poroschenko lanciò un’operazione ‘antiterrorista’ per tentare di riprendere le città del Donbass, finite in gran parte in mano ai separatisti. Era la fine della primavera 2014. Donetsk fu bombardata con artiglierie pesanti, mentre i regolari tentavano di circondarla per spezzare gli assi logistici dei rifornimenti russi. Bisogna ammettere che, dopo i rovesci iniziali, l’esercito ucraino si era in parte riorganizzato, grazie ai consigli e ai rifornimenti di paesi amici, in primis gli Stati Uniti, pronti a concedere aiuti. Da allora in poi, gli Usa hanno accordato a Kiev 2,5 miliardi di aiuti militari, fatti di armi, equipaggiamenti e formazione di militari ucraini.
Poi, i primi accordi di Minsk…
Sul piano militare, il fallimento iniziale dell’esercito ucraino aveva costretto Poroshenko e il suo gabinetto a negoziare un primo cessate il fuoco con i ribelli, il 5 settembre 2014 a Minsk, con la mediazione dell’OSCE e del quartetto formato da Francia, Germania, Russia e Ucraina. Il parlamento ucraino promulgò la legge sul ‘regime speciale di autogestione locale’ e temporanea dei distretti del Donbass in mani separatiste. Ma il cessate il fuoco rimase solo sulla carta e, da lì a febbraio 2015, i ribelli conquistarono 1.500 chilometri quadrati circa di nuovi territori
Quindi la battaglia di Debaltsevo e gli accordi di Minsk 2…
In Bielorussia, l’allora presidente francese François Hollande riuscì a convincere russi e ucraini a negoziare gli accordi di Minsk 2, fra l’11 e il 12 febbraio 2015. C’era un’intesa sul cessate il fuoco, il 12 stesso, lungo una linea di 450 km, con la promessa di ritirare tutti gli armamenti pesanti a 12 km dalla linea di separazione. Ma la guerra continuava, anzi s’intensificò nei dintorni di Debaltsevo. La tregua sarebbe dovuta entrare in vigore il 15, a mezzanotte. E allora i separatisti tentarono il tutto per tutto. Volevano cacciare gli ultimi regolari ucraini ancora presenti nel saliente e cominciarono a tempestare con le artiglierie la città e l’arteria di Artemivsk. I governativi assestarono l’ultimo colpo di coda: puntarono Lohvynove, ma finirono nella tenaglia nemica, lasciando sul terreno decine di morti e feriti. Da Washington, il portavoce del dipartimento di Stato tuonò contro la Russia, «responsabile del bombardamento della città». I filorussi avevano gran copia d’artiglieria e batterie di lanciarazzi intorno a Debaltsevo. Le usarono in massa. Il 15, entrò in vigore il cessate il fuoco, ordinato agli uomini sul terreno sia da Poroschenko, sia dai comandi filorussi. Ma i combattimenti intorno a Debaltsevo non scemarono. La tregua già vacillava, prima del previsto. I separatisti attaccarono la città da ovest e da est. In meno di un mese, i filorussi avevano conquistato 420 km2 di nuovi territori, contravvenendo agli accordi di Minsk 1.
Di lì in poi, anche le clausole militari di Minsk 2 sono state incessantemente violate. Il cessate il fuoco è stato tutt’altro che effettivo e l’Ucraina vive nel terrore dell’invasione russa. I separatisti e i loro padrini a Mosca vorrebbero per il Donbass uno statuto iper-autonomo iscritto nella costituzione nazionale. Kiev rifiuta. Nel frattempo l’economia è a rotoli. Impossibile invertire la tendenza, soprattutto se le armi non taceranno.
E oggi?
Il Cremlino vuole scongiurare ad ogni costo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Vorrebbe una zona cuscinetto lungo le frontiere occidentali del paese, per evitare di ritrovarsi le truppe occidentali nel giardino di casa. Ha già dovuto digerire l’inglobamento di 12 paesi satelliti dell’era sovietica nelle strutture militari occidentali. Teme che la Nato e gli americani possano servirsi del territorio ucraino per stabilirvi basi e radar, con nuovi intercettori antimissili, come quelli dispiegati in Romania e in Polonia, accusati di alterare l’equilibrio della deterrenza nucleare reciproca. È una questione di status e delle brame di potenza in ascesa della Russia. Per ottenere garanzie scritte dagli occidentali, Mosca ha adesso attuato un corposo dispiegamento di forze fra la Bielorussia, il distretto occidentale a ridosso del confine ucraino e la Crimea. Sta manovrando anche con la flotta, facendo temere ai più un blocco navale delle coste ucraine, contro Odessa e Mariupol. Alcuni temono che le unità d’assalto anfibio arrivate dal Baltico al Mar Nero siano il preludio ad uno sbarco sulle spiagge ucraine, che affiancherebbe l’offensiva aeroterrestre. Oggi i russi hanno una superiorità schiacciante rispetto agli ucraini. Niente potrebbe fermarli sul terreno. Invece, nonostante le riforme degli ultimi anni, l’esercito ucraino esiste ancora solo e soprattutto sulla carta. Dei 250mila uomini totali solo 130mila sono adeguatamente addestrati e molti di questi occupano posti non combattenti. Kiev ha un modello di forza molto burocratizzato.
Che cosa dobbiamo attenderci?
La storia militare russa insegna che il Cremlino quando muove in guerra preferisce usare la sorpresa. Fare tutte le dimostrazioni di forza e mostrarsi pronti a una guerra su vasta scala non è sinonimo di prontezza all’azione. Quando i russi decidono veramente di combattere non lo danno a sapere prima, non si agitano per convincere il Congresso statunitense, l’opinione pubblica e i paesi occidentali. Facendo salire la tensione al confine ucraino, puntano forse ad ottenere dei vantaggi e delle garanzie diplomatiche. Per ora non ci sono segnali chiari di un’offensiva imminente. Solo l’arrivo al fronte di molti ospedali da campo, una risorsa rara dispiegata per breve e quando effettivamente serve, sarà il vero balzo nella guerra, indicando che Vladimir Putin ha deciso e preventivato di versare molto sangue anche fra i suoi uomini.
E la pace sognata e invocata da tanti se non da tutti?
La pace, purtroppo, sebbene sperata, deve attendere che la sete di conquista incontri un pozzo profondissimo in cui affogare voglie e mire di conquista. Difficile, non impossibile.
LUCIANO COSTA