Sono passati parecchi anni, ma ogni volta che attorno agli sbarchi di disperati – ovvero: migranti, poveri, sfiduciati, miserabili, fuggiaschi, incompresi, rifiutati, veri e propri scarti… – a Lampedusa o in qualunque altro luogo baciato dal mare, ripenso a quel che l’allora sindaco dell’isola, in collegamento con l’emittente di cui mi occupavo, disse con la voce segnata dal pianto: “Li ho guardati per ore trascinarsi giù dalla nave con indosso la vergogna di sentirsi usurpatori, appena qualcuno li avvicinava dicevano grazie e prendendo le loro mani le baciavano, li ho visti piegarsi fino a terra per baciarla, non ho mai sentito un’imprecazione, non un lamento… Poi, una donna mi chiese di prendere in braccio il suo bambino, era tutto ciò che possedeva. Allora dovetti nascondere il viso per non permettere alle lacrime di dire che ero un sindaco, certo responsabile di accogliere ma non in grado, da solo, di assicurare a ciascuno di loro dignità e almeno un’opportunità di ricominciare a vivere. Un volontario, misurando il mio dolore, venne a dirmi che c’era un solo modo per non soccombere alla tentazione di strafottersene di loro e del loro destino: fare subito ciò che le possibilità consentivano, senza guardare alle regole imposte da una politica in tutt’altre faccende affaccendata, guardando l’Altro, proprio quello che era lì in quel momento, come se fosse l’unico portatore di buone notizie, di speranza, di un raggio di sole nuovo, un invito a costruire un ponte capace di scavalcare le onde e unire terre diverse ma uguali, popolate da uomini e donne diversi ma uguali…”.
Assistendo al teatrino inscenato attorno a tre navi cariche di profughi ai quali il copione assegnava la parte di invasori ai quali rammentare che “non qui ma là dovete andare… perché voi state su una nave straniera e quindi siete potenziali nemici… e non dite che esiste una legge del mare… qui le regole le facciamo noi…”, ho ricordato le parole del sindaco di Lampedusa e subito dopo a quelle in corso tra francesi e italiani: le prime erano umanesimo applicato; le seconde solo misere scuse e miserevoli dimostrazioni di incapacità a mettere umanesimo al posto di ideologismi e di logiche di bilancio… Che spettacolo deprimente! La Francia che apre uno dei suoi porti dichiarandosi pronta a ospitare i rifiutati da una Paese amico e vicino; l’Italia che ritiene offensiva quella lezione di umanesimo, forse spiccio e magari interessato, ma pur sempre gesto di umana comprensione rispetto al dramma di poveri cristi in cerca di ospitalità, proveniente da una Nazione da sempre amica e rispettosa delle altrui opinioni. Così, stamani, ecco che i confini tra Francia e Italia tornano a popolarsi di gendarmi e di carabinieri, mandati a far da argine a chissà quale invasione… Ma dai, non c’è davvero altro da fare che non atteggiarsi a guardiani di quattro o quarantaquattro disperati in cerca di briciole di comprensione, di manciate di umanità, di rivoli di aiuti, magari anche solo di quelli occasionalmente caduti dalle tavole imbandite dei novelli Epulone?
Sarebbe invece il caso, oltretutto urgentissimo, di smetterla di giocare a scarica-responsabilità e di mettere invece in campo l’umanesimo che, a ben guardare, è uno dei cardini che sorreggono da una parte la “mitica rivoluzione” (fondata sul motto “liberté, égalité, fraternité”, che tradotto significa “libertà, uguaglianza, fraternità) e dall’altra l’altrettanto mitica “Costituzione” che grazie all’unità di intenti stabilì, scrivendo l’articolo 10, che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Ecco, è adesso il tempo di mettersi là dove dilaga un conflitto “perché due sponde distanti e nemiche possano tornare a comunicare”, perché è adesso necessario “creare contatto sul terreno delle coscienze, fino ad aprire quell’insospettabile possibilità di dialogo, all’opposto della liturgia dei missili, dei cannoni, dei rifiuti ad accogliere manciate di disperati provenienti dal mare, niente più che disperati, che fanno macerie di ogni spiraglio di comprensione.
All’alba ho cercato, senza trovarle, eventuali dichiarazioni riferite dai potenti mezzi della comunicazione, quelle contenenti parole che assomigliassero alla volontà di mettere umanesimo, cuore, intelligenze, disponibilità e amore al posto di odiosi “no, non possiamo, non è nostro compito, tocca ad altri, non qui ma là…” e di pilateschi “noi rispettiamo le norme internazionali…”. Sarà, ma se non sono l’illuso che legge all’incontrario, mi pare che la prima norma internazionale sia quella del diritto marittimo, proprio quella che impone di salvare persone in difficoltà, qualunque sia la loro provenienza e nazionalità e di accompagnarle al porto sicuro più vicino. L’alternativa a siffatta incapacità di guardare il mondo con l’umanesimo dettato dalla dimenticata ma pur sempre viva “civiltà dell’amore” l’ho trovata nelle parole che papa Francesco ha usato per ricordare il “protettore dei ponti”, quel san Giovanni Nepomuceno, vescovo boemo che nel 1300 v enne gettato nella Moldava per essersi rifiutato di tradire la sua missione. Francesco ha semplicemente sottolineato che quel martire cristiano aveva detto “no ai poteri di questo mondo per confermare il suo sì al Vangelo e alla missione di prete e vescovo assunta in suo nome”, che quel che tocca fare a ciascuno è “cercare, nella vita concreta, di gettare ponti là dove ci sono divisioni, distanze, incomprensioni; essere noi stessi dei ponti, strumenti umili e coraggiosi di incontro, di dialogo tra persone e gruppi diversi e contrapposti…”.
Ha ragione: non servono lottatori e neppure c’è bisogno di primattori mondani. Servono invece persone capaci di accogliere, di amare, di aiutare… Perché sono questi i gesti che rendono le norme degne d’essere osservate.
LUCIANO COSTA