Attualità

Un altro modo di raccontare fatti e misfatti del giorno…

ISRAELE, TERRA INQUIETA E VIOLENTA quando per la sua storia e le vicende che lì si sono succedute, dovrebbe essere sempre e solo considerata “terra santa”. Invece, lì si scontrano popoli che rivendicano diritti uno sull’altro, presunzioni religiose che dimenticano pietà e misericordia, politiche che contrastano con il bene comune… Poi, l’impressione che troppe vicende vengano usate per fomentare le divergenze e mai per agevolare le intese. Eppure, chi conosce Israele sa che lì i popoli definiti in contrasto, di fatto lavorano insieme e sono gli uni dipendenti degli altri. A questa logica sfuggono i gruppi che usano la violenza come modello e la provocazione come metodo. Così le cronache, di fronte ai fatti che oscurano il vivere quotidiano, parlano di palestinesi e israeliani in guerra tra loro: missili e razzi e attentati usati dai primi e aerei, carri armati, bombardamenti usati dai secondi come risposta o prevenzione… L’ultimo fuoco divampato riguarda il campo profughi di Jenin, in Samaria, che secondo gli israeliani è sede stabile dei gruppi islamici dediti al terrorismo. Così, ancora una volta, non è la prima e purtroppo non sarà l’ultima, è andata in scena un’operazione militare che volendo colpire il terrorismo ha seminato morte e distruzione da una parte e dall’altra. “Ma il problema – ha spiegato anche ieri il patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa – va oltre gli scontri e gli episodi di violenza. Le operazioni militari, infatti, sono soluzioni temporanee che si ripeteranno finché non si risolveranno i problemi strutturali, soprattutto quello della dignità e della libertà e dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Queste situazioni temporanee, dolorose, con tante vittime, senza la volontà di sedersi al tavolo delle trattive, continueranno…”. Stanotte Israele ha annunciato la fine dell’operazione di Jenin. Ieri però un’automobile lanciata contro persone in attesa dell’autobus ha provocato feriti e rabbia. “È stato un vero e proprio atto di terrorismo” hanno detto gli israeliani. “È stata la nostra risposta ai fatti di Jenin” hanno detto i palestinesi. “Così – hanno di nuovo sottolineato coloro che cercano di portare i due popoli alla pace – non si va da nessuna parte”.

DA OGGI IN COREA DEL SUD cambia il sistema ufficiale di calcolo dell’età delle persone. In tutti i documenti verrà infatti adottato il metodo di calcolo dell’età anagrafica standard riconosciuto a livello internazionale e usato in gran parte del mondo: quello che fa coincidere un anno di età al compimento dei primi 365 giorni dalla data di nascita, e aggiunge un anno a ogni compleanno. Finora in Corea del Sud si usavano anche altri sistemi, creando spesso confusione su quanti anni avesse una persona. La decisione di abbandonare questi sistemi per adottare il calcolo standard su tutti i documenti ufficiali era stata votata dal parlamento sudcoreano nel dicembre scorso. Il comunicato stampa annunciò allora trionfalmente che “la Corea del Sud sarebbe diventata più giovane!”. Infatti, con l’entrata in vigore di quel nuovo sistema “tutti risulteranno avere uno o due anni in meno”. A distanza di otto mesi, proprio oggi, in Sud Corea la gente cambia età.

Finora il sistema di calcolo dell’età più utilizzato nel paese funzionava così: alla nascita i bambini risultavano avere un anno e poi compivano gli anni successivi il primo gennaio di ogni anno. Per esempio un bambino o una bambina nata il 30 giugno del 2022 avrebbe avuto un anno appena nata e avrebbe compiuto il secondo all’inizio del 2023: oggi avrebbe 2 anni mentre lo stesso bambino o bambina nel resto del mondo dovrebbe ancora farne uno. Un caso limite, secondo questo conteggio tradizionale, è quello di una persona nata in Corea del Sud il 31 dicembre, che secondo questo sistema di calcolo risulta avere due anni già due giorni dopo essere nata. C’è poi un sistema a parte, che in Corea del Sud si usa per calcolare l’età in cui si comincia ad andare a scuola, si può bere alcolici o si può accedere al servizio militare, e che verrà mantenuto in questi e pochi altri ambiti: parte da zero al momento della nascita ma poi aggiunge un anno ogni primo gennaio. Questo sistema non è lontano da quello che usiamo in Italia per decidere quando bambini e bambine devono iniziare la scuola perché anche qui ci si basa sull’anno di nascita e non sull’età.

 

 

NON CHIAMATELI BIDELLI. Questa figura che ha accompagnato il Paese dall’asilo alle superiori, con il suo grembiule blu e le ciabatte d’ordinanza, oggi non si occupa più soltanto delle pulizie e della custodia dei locali scolastici, ma è a pieno titolo parte della comunità educante. Il problema è che di “bidelli”, o collaboratori scolastici che dir si voglia, ce ne sono sempre di meno, rispetto alle mutate esigenze della scuola. E lo stesso vale anche per le altre figure professionali (dall’assistente amministrativo al Direttore dei servizi generali, dall’assistente tecnico al cuoco e così via), ricomprese nell’acronimo Ata, che contraddistingue i lavoratori con funzioni amministrative, tecniche e ausiliarie, indispensabili al buon funzionamento delle scuole. A sollevare la questione della carenza di questi professionisti è il dossier, intitolato “Più valore al lavoro del personale Ata”, presentato ieri dalla segretaria generale della Cisl Scuola, Ivana Barbacci.

A partire dal 2008, quando il decreto legislativo 112 tagliò ben 8 miliardi alla scuola, il personale Ata è andato sempre più in sofferenza e soltanto con la pandemia ci si è resi conto della centralità di questi lavoratori. «A questo personale si è mostrata scarsa attenzione a tutti i livelli e su tutti i versanti», denuncia il dossier della Cisl Scuola. Che ricorda i “numeri” del comparto. Attualmente, il personale Ata è composto da 204.449 unità, di cui 131.143 collaboratori scolastici (i bidelli), 46.858 assistenti amministrativi, 17.190 assistenti tecnici. 7.936 direttori dei servizi generali e amministrativi (Dsga) e 1.322 lavoratori di altri profili (cuochi, infermieri, guardarobieri…). Un piccolo “esercito” insufficiente, però, a soddisfare le mutate esigenze della comunità scolastica. Tra cui, per esempio, l’assistenza agli alunni disabili, affidata anche ai collaboratori scolastici, il cui numero, però, è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi sette anni, mentre quello degli studenti con disabilità è cresciuto di 65mila unità. Inoltre, secondo l’elaborazione della Cisl Scuola, oltre il 10% del personale Ata è assunto a tempo determinato.

Per ridurre il precariato, la Cisl Scuola popone «un piano straordinario triennale di stabilizzazione finalizzato alla copertura di tutti i posti vacanti e disponibili». Il piano dovrebbe riguardare poco meno di 16mila lavoratori precari, di cui 9.519 collaboratori scolastici e 3.626 assistenti amministrativi. Figure, queste ultime, necessarie a «garantire l’attuazione di quel processo di dematerializzazione e di digitalizzazione che il Pnrr richiede a tutte le amministrazioni pubbliche, con nuovi adempimenti che si aggiungono, inevitabilmente, a tutti i compiti delle segreterie scolastiche», si legge nel documento del sindacato. Infine, la «nuova sfida da raccogliere per rivedere gli ordinamenti professionali», è quella del rinnovo del contratto, per cui sono a disposizione 36,9 milioni di euro. «Pur trattandosi di risorse oggettivamente limitate – conclude la Cisl Scuola – si tratta di un’occasione da cogliere».

(A cura di LUCIANO COSTA)

Altri articoli
Attualità

Potrebbero interessarti anche