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Un dopo elezioni pieno di sorrisi e lamenti

I risultati definitivi delle elezioni confermano quel che già si sapeva. E cioè che l’Italia si è svegliata a destra non per caso. Infatti, i presupposti per la virata, maturati con la caduta del governo Draghi e confermati poi dall’acuirsi della crisi del gas – conseguenza diretta della guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina – erano ben in vista e pronti a trasformarsi in quello che in questo post-elezioni si chiama “trionfo della destra”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, regina indiscussa della giostra elettorale 2022, s’è presentata alla ribalta televisiva con un cartello ammiccante ai tanti italiani che l’hanno votata, sfoderando il sorriso compiaciuto di chi ce l’ha fatta, mostrando l’indice e medio innalzati a formare la “v” di vittoria e, soprattutto, esibendo la convinzione di essere il futuro, roseo e rubicondo, di questo nostro bel Paese. Difficile darle torto, soprattutto dopo che la somma dei voti ha chiaramente stabilito la sua supremazia. Però, ecco sorgere la domanda delle domande: davvero Giorgia ce la farà a districarsi prima tra le trappole dei suoi (si chiamano Salvini e Berlusconi: uno ha perso di brutto e quindi cova la rabbia dei battuti, l’altro ha salvato le apparenze ma lasciato dietro di sé un esercito di delusi) e poi tra i distinguo di una platea che non le perdonerà facilmente di essere (o di essere stata) la fascistella di borgata? Niente è impossibile, anche che la nuova stella del firmamento italiano resti, luminosa e potente, dove gli elettori l’hanno collocata con l’augurio di resistere all’usura per almeno cinque anni.

Tutto il resto, cominciando dalle meste parole usate da Enrico Letta, segretario del PD lacero e confuso dal poco ottenuto, per dire che avendo perso il filo non ci proverà neppure a restare a capo del fu primo partito, proseguendo con le altrettanto meste parole di Matteo Salvini, capitano di una Lega allo sbando, per dire che comunque ha vinto il centro destra, quindi anche lui e finendo con le non meno meste parole di Berlusconi, nobile decaduto, per dire che lui e nessun altro potrà garantire la tenuta del futuro governo a guida Meloni, è parte del paesaggio. Quanto al nuovo assetto politico, ai posteri l’ardua sentenza… Intanto, per districarsi nel turbinio delle novità, è bene leggere e rileggere quel che il voto di domenica ci ha consegnato. Un’analisi puntuale dell’accaduto e dell’accadente l’ho trovata nelle pagine di “Avvenire” con la firma di Eugenio Fatigante. Ve la propongo con la segreta speranza che possa contribuire a fare chiarezza.

LUCIANO COSTA

Gli umori di vincitori e vinti

UNA VINCITRICE NETTA, UN SEMI-VINCITORE E DUE GRANDI SCONFITTI. E risultati tutto sommato previsti. Mai come stavolta, la lettura del risultato elettorale è limpida e non si presta a tante interpretazioni. L’Italia precipitata nella crisi bellica ed energetica si è risvegliata a destra, con un primato consegnato a Giorgia Meloni, vincitrice donna, che con i suoi Fratelli d’Italia, attestati attorno al 26%, scrive una pagina di storia inedita per una fazione politica che ha radici nel postfascismo e mai era arrivata così in alto: il massimo storico precedente risale al 15,6% – ben 11 punti sotto – dell’Alleanza nazionale di Fini nel 1996.

LA SEMI-VITTORIA È QUELLA DI GIUSEPPE CONTE che, al di là del consenso raggranellato difendendo l’introduzione del Reddito di cittadinanza, forte del suo credito personale ha garantito al M5s ormai quasi post-Grillo un risultato che – non va dimenticato – è sì la metà di quello del 2018 (un’era geologica fa per il Movimento, prima della scissione dimaiana e di tanti abbandoni), ma che in realtà è inaspettato considerando che due mesi fa molti prevedevano un tracollo delle truppe pentastellate. Poi ci sono i due sconfitti: Enrico Letta e Matteo Salvini. Il vertice del Pd non ha saputo tessere una rete di alleanze e si è lasciato rinchiudere dai veti incrociati in un semi-isolamento che lo riporta per la seconda volta di seguito sotto al 20% “spartiacque”, a un passo dal risultato del 2018 a guida Renzi che per questo fu subissato di critiche. Una costanza di risultati che sta a indicare che ci sono dei nodi di fondo da affrontare, sulla natura stessa del partito e sui messaggi che dà. E, per di più, il Pd si ritrova ora alla sua sinistra un partito – M5s – che non può più essere considerato un episodio, che si è connotato come “progressista” e dopo la serie di risultati inanellati oggi, nel 2018 e nel 2013, rappresenta una realtà stabile.

L’ALTRO GRANDE SCONFITTO È IL SEGRETARIO DELLA LEGA che, con un esito che riporta il Carroccio al di sotto dei massimi toccati da Bossi, vive il paradosso di aver voluto disegnare un partito nazionale e non più padano (coronato da successo alle Europee 2019) per finire poi con il consegnare ora il governo ai nazional-sovranisti di Meloni. E che paga probabilmente una ripetitività del messaggio, a partire dalle arringhe anti-immigrati, che non ha saputo interpretare quella richiesta di “nuovo” che gli italiani hanno pensato di scorgere invece in Fdi. Anche Silvio Berlusconi non può brindare per l’ulteriore, netto arretramento all’8% rispetto al 14 e passa di 4 anni fa, ma si può consolare con le distanze accorciate rispetto alla Lega in attesa di un eventuale premio garantito dal pacchetto di seggi ancora in fase di calcolo. Sia Salvini sia Berlusconi non potranno avanzare ora molte pretese rispetto a Fdi che li surclassa in termini di voti, anche se certo conservano un potere d’interdizione per il fatto che comunque, senza di loro, la maggioranza di centrodestra non ci sarebbe. Si vedrà.

DISCORSO A PARTE VA FATTO PER IL TERZO POLO, quello di Calenda e Renzi che fallisce l’obiettivo, dichiarato, di arrivare alla doppia cifra, pur con alcune performance locali degne di nota, a partire da Milano. E sfiora soltanto la soglia minima prefissata dell’8%. Certo va tenuto conto che si tratta di un’alleanza nata solo in extremis, scontando l’indeterminatezza dei due nel dar vita a una prospettiva che invece a molti era chiara da tempo. Tuttavia, la loro percentuale non è nemmeno trascurabile e sta a indicare una prospettiva aperta perché risponde, se ci sarà costanza e lucidità per declinare una proposta compiuta, alle attese di un’area che non trova casa negli altri tre schieramenti.

Complicate restano, infine, le prospettive per l’Italia, chiamata ad affrontare un quadro internazionale da brividi con quello che, presumibilmente, sarà un governo sui generis nello scacchiere europeo: nazional-sovranista con gocce di popolarismo alla Berlusconi. L’Italia repubblicana non è mai stata così a destra e si trova a farlo in un momento storico particolare. Meloni e i suoi, che hanno dalla loro le assicurazioni date sul fronte atlantista, dovranno chiarire però i nodi delle risposte da dare sulla pace più che mai necessaria, sulla collocazione in Europa e sul contributo al suo rilancio e nell’applicazione del Pnrr. Potrà essere, tuttavia, anche per l’Unione l’occasione di chiarire un “modo di convivere” che dichiarazioni infelici, come quella di Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, mettono a volte in discussione.

Il vincitore di queste elezioni trova comunque un Paese sano, in grado di bilanciare pregi e difetti di chi ci governerà se il suo interesse sarà davvero generale e non solo finalizzato all’accaparramento delle posizioni di potere di cui la nuova maggioranza potrà disporre. Nonostante l’ulteriore, grave calo dell’affluenza alle urne – altro fenomeno a cui la politica dovrà dare risposte nel suo insieme –, l’Italia resta una democrazia matura con salde Istituzioni di garanzia, a cominciare dalla Presidenza della Repubblica retta con saggezza da Sergio Mattarella. Purtroppo per cattive o mancate riforme il Paese è dotato di un sistema politico-elettorale imperfetto, che può – e deve – essere messo a punto ma a cui non c’è – e non deve esserci – alternativa o rinuncia.

EUGENIO FATIGANTE

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