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Un “Dpcm” lungo, complicato, illeggibile…

di Marco Bencivenga –

Per spiegare cosa potremo fare e cosa non potremo fare a Natale per contrastare la diffusione del Coronavirus e per scongiurare il rischio di una terza ondata della pandemia a gennaio, in settimana Giuseppe Conte ha firmato l’ennesimo Dpcm, acronimo un tempo conosciuto solo ai funzionari ministeriali e ora invece diventato di uso comune (al pari di droplet, distanziamento, lockdown…). Dpcm significa Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sul piano giuridico si tratta di un provvedimento amministrativo, quindi un atto di valore inferiore rispetto a una legge, tanto da non aver bisogno di alcuna validazione: è immediatamente esecutivo, non deve essere controfirmato dal Presidente della Repubblica né essere convertito dal Parlamento, com’è invece previsto per i decreti legge ordinari. In sostanza è un’arma molto efficace in mano al Governo, che — non a caso — l’ha subito sfruttata per avere mani libere di fronte all’emergenza in nome della sicurezza nazionale.

 Il problema è che un provvedimento d’urgenza dovrebbe essere essenziale: dovrebbe fissare poche regole, molto chiare e immediatamente applicabili. Invece, l’ultimo Dpcm ha battuto tutti i precedenti primati in materia: la firma di Conte arriva a pagina 28 e rimanda a un allegato di ben 289 pagine, che puntano a normare tutto: dal ricambio dell’aria negli archivi e nelle biblioteche alla «fornitura dei dispositivi di protezione individuale, anche con tute usa e getta, a tutte le maestranze impegnate nei cantieri»; dagli incontri fra i medici e gli informatori farmaceutici alla separazione del posto di guida degli autobus rispetto ai passeggeri all’obbligo di installare dispenser di prodotti igienizzanti nelle sale slot (non importa se uno si gioca i risparmi di una vita alle macchinette, l’importante è che abbia le mani pulite).

Addirittura 37 pagine allegate al Dpcm (trentasette!) sono riservate alla «gestione dell’emergenza epidemiologica a bordo delle navi da crociera». Una solerzia degna di miglior causa da parte di esperti e burocrati, che finisce inevitabilmente per produrre due effetti negativi: da un lato disorienta il comune cittadino, dall’altro presta il fianco a infiniti distinguo e altrettante interpretazioni di comodo. In proposito è tanto istruttivo quanto divertente andare a spulciare i più celebri aforismi in materia: fra filosofi, statisti e umoristi, c’è chi la mette sull’ironia, chi sul valore della democrazia, chi sui rischi per la collettività.

Lo scrittore americano Arthur Bloch (noto per aver spiegato la celebre legge di Murphy: se qualcosa può andare storto, lo farà) sostiene per esempio che «la proliferazione di nuove leggi crea una proliferazione di nuove scappatoie». Un sillogismo che sembra adattarsi perfettamente alla realtà italiana, come ebbe ad ammettere già all’inizio del secolo scorso un celebre predecessore di Giuseppe Conte: Giovanni Giolitti. «Per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono». Ancor prima, addirittura 2.400 anni fa, il re di Sparta Agesilao II avvertiva che, in realtà, non sempre la possibilità di eludere le leggi è un vantaggio. Anzi. «Dove troverai le leggi più numerose — ammoniva —, lì troverai anche le più grandi ingiustizie». Una preoccupazione condivisa da Winston Churcill («Se esistono diecimila norme si distrugge ogni rispetto per la legge») e dallo scrittore romeno Nicolae Petrescu Redi («L’uomo in fuga dalle leggi della giungla ha finito per imbattersi nella giungla delle leggi»). Più ottimisti il cardinal Richeliu («Fare una legge e non farla rispettare equivale ad autorizzare la cosa che si vuole proibire») e il conte di Chatham William Pitt («Dove finisce la legge comincia la tirannia»).

A trovare il punto di equilibrio è stato forse l’ex giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Louis Brandeis, con un assunto tanto semplice quanto condivisibile: «Se vogliamo che la legge venga rispettata, per prima cosa dobbiamo fare leggi rispettabili». Chissà se il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ne abbia mai sentito parlare. In alternativa, in occasione del prossimo viaggio a Washington, potrebbe fare un salto al memoriale di Abramo Lincoln, uno dei «padri della patria» americani, che un giorno disse: «Tre cose formano una nazione: la sua terra, il suo popolo e le sue leggi». Basta non abusarne. Nemmeno in tempi di pandemia. O quando, anziché con le leggi, si governa con i Dpcm.

MARCO BENCIVENGA

Direttore del quotidiano “La Provincia di Cremona”

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