Alcuni mesi fa l’Economist, giornale britannico, pubblicò un lungo editoriale intitolato “sta diventando più difficile prendersi un giorno di malattia” in cui, puntigliosamente, illustrava quello che starebbe accadendo in un giorno qualsiasi, però contrassegnato da malessere e, quindi, in teoria, ascrivibile tra i giorni di malattia, perché se si è malati si resta anche casa e, sulla carta (così come sulla busta paga), si risulta in malattia. Ma questo non significa che il lavoro venga davvero messo in pausa e ci si possa avvolgere serenamente (senza pensieri) in una coperta con una bevanda calda tra le mani. Le email e le telefonate di colleghi e capi spesso e volentieri non si fermano per il semplice motivo di essere in malattia.
Secondo il quotidiano inglese il tutto sarebbe una conseguenza distorta dei mesi di lockdown e pandemia, quando il lavoro da casa è diventato la realtà di molti e i confini tra vita professionale e vita privata sono diventati pericolosamente sottili, se non inesistenti. In più, sempre secondo l’Economist, la rivoluzione del lavoro da casa avrebbe alzato l’asticella di quel che si può considerare come malattia. All’apice della pandemia, come è noto, le persone lavoravano da casa anche con sintomi importanti come febbre, respiro corto o nausea. Era necessario? Era una scelta libera o un’esigenza dettata dall’esterno? Rispondeva ad un bisogno personale? Eravamo tutti vittime (più o meno consapevoli) di un sistema economico costruito su un’idea di merito che si regge sul principio del “lavorare sodo”? Temevamo di perdere il posto? Non è qui e adesso importante chiarire caso per caso. Sta di fatto che durante la pandemia (e a causa della pandemia) molti hanno mostrato come fosse possibile lavorare da ammalati. E oggi molti continuano a farlo.
Ma perché questo avviene? Il discorso è complicato. Da una parte qualcuno potrebbe provare vergogna (o timore) nel dire: “Oggi non rispondo a mail e telefono. Solo malato”. Dall’altra parte alcuni capi pensano: “Suvvia, cosa ci vuole a rispondere a due mail”. Venuta meno una certezza (da malati non si lavora), in questa zona grigia ognuno si muove secondo la propria coscienza, ma anche in accordo al proprio livello di maturità e alla consapevolezza maturata intorno al ruolo che il lavoro occupa all’interno della propria personalissima biografia.
“Solo alcune aziende hanno normato il lavoro da casa garantendogli tutele adeguate” ha spiegato in un’intervista Giovanna Castellini, dirigente psicologa, responsabile del Centro Stress e Disadattamento Lavorativo del Lavoro del Policlinico di Milano. Ragion per cui, organizzare la casa come l’ufficio fornendo sedie ergonomiche, diritto al pasto, modalità da remoto di dichiarare l’orario di entrata e uscita dal lavoro, permessi, ferie retribuzione dello straordinario… sono rimaste ipotesi. Infatti, “in molte altre aziende, la situazione è parecchio subdola: i manager, grandi o piccoli che siano, fanno vivere il lavoro da casa come un privilegio e i lavoratori inconsciamente lo vivono come tale”.
Le conseguenze, secondo l’esperta, sono devastanti. «Innanzitutto, ci si rende sempre disponibili (o si pretende che i collaboratori lo siano) senza alcun rispetto della pausa pranzo ad esempio; poi, si richiede il presenzialismo a qualsiasi ora, che tanto sei a casa, comodo…”.
Questi comportamenti, osserva l’esperta, “innestano nel lavoratore la convinzione che il privilegio di stare a casa – non quello di lavorare da casa- sia un benefit con un prezzo da pagare. Pertanto, molti lavoratori denunciano un carico di lavoro eccessivo con obiettivi impossibili da raggiungere se non con un monte ore giornaliero che sfora ampiamente l’orario contrattuale”. La diretta conseguenza di questo smart working, è che la salute non è tutelata. Infatti, “c’è chi non va nemmeno in bagno, chi non si alimenta correttamente, chi non riposa e si sveglia nel pieno della notte per terminare il lavoro e portarsi avanti, chi non fa nemmeno una pausa caffè”.
In un quadro così preoccupante, aggiunge ancora l’esperta, “non dimentichiamo che l’ufficio dentro l’abitazione finisce per confondere lo spazio personale con quello lavorativo. In questa confusione vince la priorità del lavoro e senza che i lavoratori se ne accorgano si finisce per entrare in un vortice malato che, solo quando le risorse si sono logorate e lo stato di salute che si manifesta o nel linguaggio del corpo o attraverso in crisi ansiose, paniche o depressiva allora si comincia ad acquisire la consapevolezza dei rischi ai quali il lavoratore è esposto”.
In un contesto come questo, allora, è ovvio che “assentarsi per malattia significa dimostrare che non ci tieni al lavoro, che sei una persona disamorata e con poca voglia di lavorare, che non sei allineata con gli altri che invece si prodigano”. Come se non bastasse, le aziende “innestano un forte senso di colpa nel dipendente”. E questo senso di colpa “è un indotto molto forte, che parte dalla percezione distorta dello stare a casa come condizione di comodo”.
Però, ha sottolineato l’esperta al giornalista che l’interrogava “benché siano noti i benefici che questa novità (e flessibilità) porta con sé, ne temo anche le possibili derive. Insomma, sono terrorizzata dall’idea che possa essere qualcun altro a stabilire qual è il metro di misura che determina quando io sarò “sufficientemente malata” da avere il diritto a spegnere il telefono e riposarmi (o prendermi cura di un famigliare) e quando invece la mia malattia (o quella di un mio caro) sarà ritenuta da altri cosa di poco conto”, quindi mal giudicata e tollerata”.
Urgono rimedi. Ma, chi è disposto a scendere in piazza per rivendicare il rispetto della malattia?
(A cura di LUCIANO COSTA)