Un’altra olimpiade, ma è una Paralimpiade…

Da oggi al 5 settembre il mondo celebra un’altra olimpiade. Non più quella che cerca record, bensì quella che si accontenta del verdetto e gioisce. Questa olimpiade che non può cercare record assoluti si chiama Paralimpiade e giunge alla sua sedicesima edizione.  Sarà una festa, ne sono sicuro. Soprattutto perché dentro questa festa ci siamo tutti e nessuno è escluso. Qui, dinanzi al cosiddetto mondo della disabilità, ogni nazione è chiamata ad incontrare davvero le persone che vivono un disagio fisico, sia esso dalla nascita o manifestatosi ad una certa età. Mettere da parte i pregiudizi, abbattere le barriere è un compito che chiama in causa tutti anche per combattere la cultura dello scarto, per superare le barriere, comprese quelle che sono dentro di noi. Così e solo così, disse papa Francesco agli atleti diversamente abili diretti in Brasile per partecipare alla quindicesima Paralimpiade “lo sport diventa un’occasione preziosa per riconoscersi come fratelli e sorelle in cammino, per favorire la cultura dell’inclusione e respingere la cultura dello scarto. Tutto questo – aggiunse – risalta ancora maggiormente nella vostra esperienza, perché la disabilità che sperimentate in qualche aspetto del vostro fisico, mediante la pratica sportiva e il sano agonismo si trasforma in un messaggio di incoraggiamento per tutti coloro che vivono situazioni analoghe alle vostre, e diventa un invito ad impegnare tutte le energie per fare cose belle insieme, superando le barriere che possiamo incontrare intorno a noi, e prima di tutto quelle che ci sono dentro di noi”.

Terminati i Giochi Olimpici, Tokyo si prepara dunque ad ospitare le Paralimpiadi. Come da accordi – stipulati nel 2001 – tra il Comitato Paralimpico Internazione e quello Olimpico, il Paese selezionato per ospitare i Giochi olimpici deve organizzare anche i corrispondenti Giochi paralimpici. Quest’anno, dopo il rinvio di 12 mesi a causa della pandemia di Covid-19, si disputano da oggi, 24 agosto, al 5 settembre. Per la capitale nipponica è la seconda esperienza (la prima fu nel 1964 ed ebbe indubbio successo). Sono 22 le discipline in programma, disputate in una ventina tra stadi e palazzetti dello sport, alcuni dei quali costruiti per l’occasione. Dopo Tokyo, sarà Parigi ad organizzare le prossime Paralimpiadi che si svolgeranno dal 28 agosto all’8 settembre 2024.

Anna Barbaro è una delle numerose atlete che proverà a vincere una medaglia a Tokyo. La 35enne della nazionale italiana paratriathlon e del gruppo sportivo Fiamme Azzurre vanta un palmares con numerosi titoli sia a livello nazionale che internazionale e nel ranking della sua categoria occupa i primi posti. L’atleta calabrese ha perso dieci anni fa la vista a causa di una malattia incurabile. La sua guida è oggi Charlotte Bonin, triatleta italiana che ha partecipato a due Olimpiadi ed ora si appresta, accanto ad Anna, a vivere le sue prime Paralimpiadi. Uno dei motti di Anna è “sognare oltre il limite”, il che rende già l’idea del suo carattere e della grinta con cui ha deciso di costruire un sogno chiamato “Tokyo 2020”. Terziaria francescana, l’azzurra ricorda con grande emozione il suo incontro con il Papa, avvenuto al termine di un’Udienza Generale del mercoledì alla quale aveva partecipato ricevendo dal Papa parole che hanno rappresentato per lei un faro che gli ha regalato quella luce speciale che le ha permesso di percorrere con gioia, sebbene impossibilitata a vedere a causa della malattia che l’aveva resa cieca, la strada dello sport.

A Tokyo ci saranno anche sei atleti molto speciali: una donna e cinque uomini, tre originari di Siria, gli altri provenienti da Burundi, Iran e Afghanistan. Sono i componenti del team dei rifugiati e la loro squadra rappresenta 82 milioni di persone che sono state costrette a fuggire da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti e povertà: di queste, 12 milioni hanno una disabilità. “Questi atleti sono qui, ancora una volta – ha spiegato Andrew Parsons, presidente del Comitato paralimpico internazionale – per promuovere un cambiamento di mentalità di fronte alla disabilità”. A Rio de Janeiro nel 2016 i rifugiati in gara erano due: il siriano Ibrahim Al Hussein e l’iraniano Shahrad Nasajpour, ed entrambi sono anche a Tokyo. Le loro sono piccole-grandi storie… che sarebbe un peccato non conoscere.

Abbas Karimi è nato senza braccia a Kabul. “E quando si nasce disabili in Afghanistan si è considerati senza speranza” ha detto ai cronisti. A 12 anni Abbas si è dato al kickboxing. “Era un modo per difendermi e sfogare la rabbia. Poi l’incontro con l’acqua m i ha cambiato la vita. Ero spaventato, senza braccia temevo di affogare. Avercela fatta mi ha dato fiducia e da quel giorno il nuoto è la mia oasi di felicità!”. Con i piedi Abbas fa tutto: mangia, scrive e guida anche la macchina. A 16 anni è scappato da Kabul e si è rifugiato in Iran me da lì ha iniziato un viaggio straziante fino in Turchia. In Turchia, tra il 2013 e il 2016, Abbas ha vissuto in quattro diversi campi profughi. Poi, nel 2015 un allenatore statunitense, che ave va visto il video di una gara, lo ha invitato a Portland. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha reso possibile quel “sogno”.

Ibrahim Al Hussein, nato nel 1988 a Deir al Zor, in Siria, stava scappando quando un cecchino ha colpito un suo amico. Lui corse ad aiutarlo e pochi secondi dopo una bomba gli esplose accanto facendogli perdere la parte inferiore della gamba destra e procurandogli danni alla sinistra. Venne soccorso da un dentista… Era il 2012 quando raggiunse Istanbul incontrando persone generose che gli hanno procurato una protesi precaria. Poi, la notte del 27 febbraio 2014 ha attraversato l’Egeo su un gommone fino all’isola di Samos dove trovò altre persone generose che lo hanno accompagnato ad Atene. “Allora, un medico mi donò una vera protesi. Non avevo un soldo in tasca. Con la protesi ho trovato lavoro, pulivo i bagni alla stazione degli autobus, e ho ripreso anche a fare sport». Nell’ottobre 2015.dopo a ver mostrato il suo valore negli allenamenti l’invito a partecipare, come rifugiato, alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro. Oggi Ibrahim lavora ad Atene come artigiano, produttore di souvenir.

Parfait Hakizimana, classe 1988, sarà in gara nel taekwondo. Nel 1996, quando aveva solo 8 anni, è fuggito dal Burundi dopo che nell’attacco al campo di sfollati dove viveva venne uccisa sua mamma e lui rimase gravemente ferito al braccio sinistro diventando di fatto un disabile di guerra. Poi lo sport lo ha aiutato a migliorare la funzionalità del braccio. A 16 anni ha iniziato a praticare il taekwondo, a 22 anni ha aperto pure una scuola. Esperienza spezzata dalla violenza che, nel 2015, lo ha costretto a lasciare il Burundi per rifugiarsi in Rwanda. Oggi insegna taekwondo a 150 persone (bambini compresi) nel campo profughi di Mahama. Il suo obiettivo è tornare in Burundi con la moglie e la figlia per aprire nella sua terra una palestra per insegnare taekwondo.

Alia Issa, di origine siriana, ha 20 anni e le idee chiare: “A Tokyo voglio mostrare alle giovani donne con disabilità, e in particolare alle donne rifugiate, che lo sport può aprire un mondo di possibilità”. Suo padre ha lasciato la Siria e ha raggiunto la Grecia nel 1996 alla ricerca di una vita migliore per la famiglia. Alia, quinta figlia, è nata in Grecia nel 2001. A soli quattro anni ha contratto il vaiolo che le ha causato danni cerebrali che l’hanno costretta sulla sedia a rotelle con gravi problemi, anche a parlare. Tra la morte del padre e le condizioni economiche precarie, è stato proprio lo sport a darle una possibilità. Grazie a un insegnante di educazione fisica Alia è diventata una lanciatrice di martello. Con un sogno: diventare medico.

Anas Al Khalifa è nato nel 1993 a Hama, in Siria. La guerra, nel 2001, ha disperso la sua famiglia e lui si è ritrovato in un campo di sfollati al confine con la Turchia. L’avventuroso viaggio per la Germania è durato un anno. Poi l’incidente proprio quando le cose sembravano andare per il verso giusto: il 7 dicembre 2018 stava montando pannelli solari ma è scivolato precipitando a terra. Diagnosi infausta: lesione spinale che ha significato operazioni, ricoveri, riabilitazioni. Il suo sogno di una “vita migliore” sembrava finito, “ma – ha raccontato – è arrivato lo sport a salvarmi”. Gli suggerirono la canoa… “Però – dice emozionato – non sapevo cosa fosse il kayak e soprattutto non avevo fiducia in me stesso”. Il resto lo ha fatto la forza di volontà. E se ce l’ha fatta un profugo con la schiena paralizzata… possono farcela tutti!

Shahrad Nasajpour è stato tra i primi a credere che un team di rifugiati potesse partecipare alle Paralimpiadi. Tanto che è riuscito a prendere parte, proprio all’ultimo momento, ai Giochi di Rio de Janeiro 2016. “Ho scritto montagne di mail, imperterrito, a tutti senza farmi abbattere dai no – ha raccontato -. E l’ho fatto non avendo nulla in mano, presentandomi come un uomo — nato con una paralisi cerebrale — appena arrivato, era il 2015, negli Stati Uniti dall’Iran in cerca di asilo e di una vita migliore”. In Iran aveva iniziato a praticare qualche sport, soprattutto il ping-pong. Poi era passato ai lanci nell’atletica. Lasciato l’Iran tra mille problemi, aveva ripreso a fare sport a Buffalo. “Quando sono entrato nello stadio di Rio con la bandiera del Comitato paralimpico — racconta — mi passavano per la mente tutte le difficoltà che avevo superato nella mia vita ed era chiaro che non ero lì, a Rio, solo per me stesso ma per tutte le donne e gli uomini con disabilità e con la vita complicate”. Dopo Rio, Shahrad ha completato gli studi universitari conquistando la laurea in politica di gestione pubblica all’università dell’Arizona. Recentemente è stato ammesso alla George Washington University. “Voglio aiutare le persone con disabilità e rifugiate a trovare una strada nella vita anche con lo sport, devo restituire tutto il bene che ho ricevuto”.

Fine delle sei storie e inizio delle nuove storie di una Paralimpiade che va a incominciare. Giampaolo Mattei, che le ha pubblicate, ammonisce: “Guai a crederle uniche, perché invece sono di tanti, di tutti coloro che senza colpa si sono ritrovati diversamente abili”.

L. C.

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