Dialogo sui modi dire che alterano piuttosto che accomodare il discorso. Non sopporto chi usa “assolutamente” come risposta a una domanda alla quale poteva facilmente far fronte con un sì o con un no. Odio, e non penso di essere solitario in questo esercizio, l’uso smodato, isterico e in definitiva stupido, dell’assoluto che diventa assolutamente. Ho chiesto a un tizio che smaniava di fronte al pizzaiolo che secondo lui si stava occupando di tutto meno che del suo mestiere: “Ti piace la pizza?”. Mi ha risposto: “Assolutamente sì”. Parimenti, alla signora che con impazienza sostava davanti alla toilette, la barista andata a chiederle se magari era lì perché “desidera fare la pipì”, si sentì rispondere un “assolutamente no” che aveva tutta l’aria di un rimprovero.
Quando mi capitò di intervistare una avvenente amministratrice pubblica, che peraltro conoscevo praticamente da sempre e della quale avevo seguito non senza stupore e preoccupazione la sua sfolgorante e improvvisa ascesa, sapendo che aveva in bocca “assolutamente” e che lo usava come rafforzativo di affermazione e di negazione, la pregai di evitarne l’uso e di limitarsi a un semplice sì o a un deciso no. Incominciò l’intervista e alla prima domanda, la più semplice, rispose spiattellando un assolutamente sì che la diceva lunga e chiara sulla sua capacità di usare e rispettare la lingua parlata. Alla seconda domanda, altrettanto semplice, rispose con lo stesso piglio e la medesima forma, questa volta dicendo “assolutamente no”. Temendo che la terza domanda ricevesse uguale risposta, conclusi l’intervista adducendo come spudorata scusa, un guasto improvviso alla telecamera. Non la prese bene. Infatti, per almeno un mese andò dicendo in giro che l’avevo presa in giro. Le mandai a dire che, tutt’al più, mi erano rimasti indigesti i suoi “assolutamente no” e “assolutamente sì”, soprattutto perché usati più a sproposito che a proposito. Quando anche per lei si spensero le luci della ribalta, ammise che forse avevo avuto ragione e che la lezione le era servita.
Ieri, un politico di quelli che van bene per tutte le stagioni, in un minuto di intervista è riuscito a usare “assolutamente” per ben tre volte e sempre per “le più sciape e futili ragioni”. Lui non lo sa, ma se c’è una parola da prendere con le pinze, anzi, da tenere il più possibile alla larga, per le sue oscure, sconvolgenti, tragiche implicazioni, è proprio “assolutamente”. Infatti, viene da absolutus e se non fosse per lo stupido uso che se ne fa, significherebbe sciolto, slegato, libero, svincolato; oppure ciò o colui che dissolve, che distrugge. Che c’azzecca, allora, con affermazione o negazione? Niente. Però, fa moda. Ma, se permettete, anche noia, tanta noia.
Che fare per togliere il vezzo e ripristinare la normalità del sì o del no, del dialogare senza troncare le parole, del confrontarsi senza avere la pretesa dell’assoluto? Il mio amico Giuseppe, saggio la sua parte e però anche felice compagno della più sana follia, quasi sentenziando, mi ha detto: “Fate quel che allora, ai tempi del telefono fisso e della macchina da scrivere, facevano i saggi: parlavano, dialogavano, riflettevano, comunicavano usando il sorriso per condividere, gli occhi per trasmettere un lampo di luce, la bocca per confezionare parole sensate e magari amorose, le orecchie per non perdere neppure un sussurro, il naso per appropriarsi di profumi e odori, la mani per confezionare segni a sostegno delle idee, i piedi per dare un calcio ai pessimisti, due ai predicatori di sventura e tre, ma anche di più, ai costruttori e dispensatori di noia”.
La noia… Se le diamo corda, ha scritto di recente Mariolina Ceriotti Migliarese, una brava psicologa, “scompaiono la nostra curiosità verso le cose e la piacevole sensazione di sentirci vivi in un universo dotato di senso. Tutti pensiamo – ha aggiunto – che questo avvenga quando le cose si fanno troppo ripetitive e abituali; cerchiamo perciò di combatterla semplicemente moltiplicando le novità. Ma in realtà non sono le cose a diventare noiose; infatti, ciò che succede non ha origine fuori ma dentro di noi, perché è lì che si trova la sorgente di energia vitale che ci permette di evitare in modo sicuro il pantano della noia. Questa energia vitale si chiama creatività. E la creatività è il contrario della compiacenza: l’atteggiamento compiacente consiste nel leggere la realtà e il mondo come luoghi che richiedono soprattutto adattamento; la creatività ci suggerisce invece che la realtà e il mondo sono luoghi aperti, nei quali mettere qualcosa di inedito che viene proprio da noi. Chi è creativo pesca risorse dal proprio mondo interno, per investirle nel mondo esterno e farle fruttare. È dunque un errore immaginare che siano gli altri ad essere responsabili della nostra noia; si tratta piuttosto di imparare ad incrementare le nostre capacità creative e ad investire sempre nuove risorse nella concretezza della vita, perché la vita, anche quella quotidiana, abbia sempre interesse e sapore”.
Per fare questo sono necessarie però due condizioni: darsi da fare per sviluppare senza mai stancarci le nostre risorse interiori; sviluppare linguaggi perché queste risorse possano esprimersi. Senza mai dimenticare che “ogni attività umana ha una sua grammatica, nella quale è necessario diventare competenti perché ciò che facciamo possa nello stesso tempo essere apprezzato dagli altri e darci la soddisfazione che cerchiamo”.
Sarà il caso di meditarci sopra. Possibilmente adesso, che il domani potrebbe già essere stato occupato dalla noia e usurpato dai noiosi.
LUCIANO COSTA